Nel 1916, in una caverna sul fronte del Monte Fumo, un medico austriaco ha una notte per far parlare un prigioniero italiano di cui ignora l’identità, pena la fucilazione. Durante il colloquio, il detenuto racconta la vita di un uomo misterioso, Guzman, che intreccia amori, ossessioni e legami con il medico stesso. Perché il destino di questi nemici è in realtà il medesimo: tre domande rivelatrici guideranno una verità nascosta nella leggenda.
Carrisi abbandona i territori del thriller puro per cimentarsi con l’affresco storico–intimistico, ma La donna dei fiori di carta si rivela un esercizio di manierismo narrativo più che un romanzo autentico. La struttura, che vorrebbe essere claustrofobica e teatrale (un medico e un prigioniero chiusi in una grotta tra i ghiacci della Grande Guerra) si riduce presto a un pretesto verboso per raccontare un’altra storia ancora, quella dell’enigmatico Guzman.
Il risultato è un racconto nel racconto, nel racconto, che rincorre suggestioni da feuilleton ottocentesco con la goffaggine di chi ha letto troppo Baricco e troppo poco Tolstoj. Le “tre domande” che dovrebbero reggere la suspense sembrano uscite da un programma televisivo a premi, e i riferimenti storici (Titanic incluso) si incastrano in modo forzato, quasi imbarazzante, nel tentativo di dare profondità a una trama che è solo un mosaico di cliché.
Il linguaggio è piatto, didascalico, sorretto da metafore scolastiche e da un sentimentalismo prefabbricato, mentre i personaggi sono sagome retoriche: l’eroe tormentato, la donna misteriosa, il nemico che diventa specchio. Tutto è già sentito, tutto è smaccatamente “letterario” nel senso più deteriore del termine: quel tipo di narrazione che confonde l’evocazione con l’effetto speciale.
Insomma, un libro che si prende terribilmente sul serio, ma senza mai guadagnarsi davvero i lettori, ripiegato su un immaginario derivativo e nostalgico, privo di mordente.





















