Daniel Mendelsohn – Un’Odissea. Un padre, un figlio, un’epopea

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A causa dell’antica idea secondo la quale un libro è una sorta di fusibile nel circuito elettrico delle nostre relazioni amicali e famigliari, un dispositivo ad alto linguaggio che stabilisce comunicazioni, uno strumento indispensabile alla circolazione di parole, di un’energia che si moltiplica tra più punti; per questa precisa idea, che ho definito “antica” in quanto è una convinzione che non muta, ho dato credito al romanzo di Daniel Mendelsohn che, peraltro, avrei potuto bollare subito con un commento lapidario: oh no, un altro romanzo sull’Odissea! Un’altra spiegazione dell’Odissea! Poi, però, il sottotitolo mi ha fatto recuperare in avanti quel passo che, istintivamente, avevo compiuto all’indietro. E mi sono avvicinato a questa storia. Prometteva di parlarmi di “un padre, un figlio e un’epopea”. Lasciamo stare l’epopea: nel trinomio del sottotitolo era l’elemento per me più laterale. É stato quel semplice binomio di “un padre, un figlio” ad accendermi. Ho supposto che Mendelsohn intendesse raccontarmi di Ulisse e di suo figlio Telemaco. Di un padre assente e di un figlio che lo attende e ne va in cerca. Anche se il suo racconto fosse stato strettamente e unicamente questo, e quindi aderente ai fatti e ai personaggi omerici, comunque la mia lettura sarebbe stata ripagata. Anche se il suo romanzo fosse stato una semplice re-interpretazione del famoso poema sotto la lente (psicoanalitica, edipica?) dell’amore-odio filiale-paterno, un certo guadagno di senso lo avrei tuttavia ottenuto, perché Mendelsohn, già autore di Gli scomparsi (Einaudi, 2018), sa come tenere le fila di un grande racconto. Di un’epopea, appunto. (Negli Scomparsi l’epopea narrata è stata quella della ricostruzione di una famiglia ebraica smembrata dal nazismo).

L’autore americano, già docente universitario al Bard college di New York, critico e traduttore, invece non si è limitato a imbastire una lunga e dotta lezione sull’eroe per antonomasia e sul suo tempo (il mito di Ulisse, dall’origine ai giorni nostri). Certo, ha fatto anche questo. Anche. E infatti sono da considerarsi materia di (piacevolissimo) studio molte sue pagine che aiuterebbero tanti studenti universitari ad arrivare meglio preparati all’esame di letteratura classica, anche se alcuni lettori hanno mosso critiche all’autore a causa di una certa sua propensione ad analizzare il poema omerico come se fosse un film hollywoodiano. Annotiamo a margine questa pur plausibile critica e cerchiamo di non farcene troppo condizionare, perché il punto centrale del libro è vedere come il professore ci avvicina al Mito e ce lo rende utile.

Le pagine di Mendelsohn sono di fatto una lezione ben guidata di analisi della struttura e del contenuto dell’Odissea omerica. Non mancano rimandi ad altri studiosi e alla filologia, per chi volesse approfondire. Ma l’intento dello scrittore-professore, in ultimo, è quello di parlare tramite l’Opera, non solo dell’Opera. Mendelsohn va ben oltre un’esegesi della narrazione epica, e si fa più prossimo a quel territorio biografico che a volte è il più aspro da percorrere, con il passo della letteratura.
In qualità di Io-Narrante, il punto di vista di Mendelsohn è tanto quello del professore che deve tenere un seminario per i suoi studenti, quanto quello di un figlio. Di sé come figlio. Un figlio ormai adulto, maturo, ben oltre i quarant’anni. Dunque rievocare la propria storia famigliare personale e intima, il rapporto con il proprio padre, la propria madre, rievocarsi e collocarsi nel posto che gli spetta all’interno della sua personale genealogia, diventa per l’autore, e per ognuno di noi, la grande epopea omerica. La grande avventura. Un’avventura con le sue difficoltà. Ecco perché serve una guida. Mendelsohn la trova nell’Odissea. Nella letteratura. In ciò che essa ci permette di fare: entrare in comunicazione con l’altro, instaurare uno scambio di significati simbolici, mediato da una narrazione finzionale. Così l’Odissea può diventare un’odissea, quella che più ci riguarda. Una narrazione ampia, che parte dalle gesta di un eroe riconosciuto per arrivare alla scoperta di un tipo diverso di eroe: mio padre. O un padre.

L’eroismo, per come abbiamo imparato a identificarlo leggendo la letteratura classica, per come ce l’hanno insegnato a scuola, cambia segno. Perché non avremmo mai immaginato che di Ulisse qualcuno avrebbe mai osato dubitare e dire: “Non mi pare poi tutto questo grande eroe, tradisce la moglie, perde tutti gli uomini al suo comando, che non sempre gli obbediscono, perde le navi, non se la sa cavare da solo, non è un vero capo e, quando il gioco si fa veramente duro, arriva sempre la dea Atena a salvarlo”. Questa è la voce grave, seria, energica di un padre. Per un figlio. Un padre ottantenne in una classe di giovanissimi studenti del primo anno di un college di New York. Parole per un figlio che, sgomento e sorpreso, sta alla cattedra per insegnare e, invece, inizia ad apprendere, a capire, a ricordare e a conoscere sotto una nuova luce un uomo non meno imperfetto, non meno eroico e non meno in gamba di quel tale, scaltrissimo, che si fece chiamare Nessuno.

Una sera di gennaio di qualche anno fa, poco prima che iniziasse il semestre nel quale avrei tenuto un seminario sull’Odissea per gli studenti del primo anno, mio padre, un ricercatore scientifico in pensione allora ottantunenne, mi chiese, per ragioni che sul momento pensai di aver compreso, di poter seguire il mio corso, e io gli dissi di sì.

rptnb

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