Antonio Zamberletti. Uno che sa scrivere
Non so quanti eredi, più o meno legittimi, ci abbia lasciato Sergio “Alan D.” Altieri, il grande eretico della narrativa di genere. Spero tanti. Ho una certezza, però: Zamberletti è tra i migliori. Ma non solo Altieri: Lee Child, Victor Gischler, Andy McNab, Stefano Di Marino e una spruzzata di Ross Macdonald potrebbero essere gli ingredienti base (agitati, non mescolati) che compongono lo stile Zamberletti.
Sandra Borman si era messa vicino alla porta del bagno, controllo visivo sul locale, sulle due finestre e sulla porta. Deformazione professionale. A un livello più alto e più intrinseco: distorsione professionale.
Il cinismo di personaggi scolpiti nella sofferenza e nel granito, uomini scelti dagli dei per un destino da combattenti senza una causa definita, raminghi e reietti, eroi ignorati e inutili.
La sua faccia da bravo ragazzo uscita da una pubblicità del latte era svanita nel nulla. Sotto la tinta mimetica nera, le rughe erano segni marcati, solchi precisi. Il latte era diventato rancido, acido. Una folata di vento sollevò una nube di polvere.
Descrizioni, paesaggi, ambienti, dipinti con potenza e sensibilità.
L’alba era stata un oceano scarlatto piovuto addosso alle montagne, sembrava che ghirlande di rame fuso fossero cadute dal cielo per incorniciare l’orizzonte.
La pioggia che cadeva su Chicago cessò di cadere quando un pallido chiarore prese a colorare il cielo. Il tizio con il sax aveva chiuso bottega con Moonlight Serenade attorno a mezzanotte.
Dialoghi scarni e dolorosi come carta vetrata sulla pelle d’un neonato nei quali c’è spazio anche per l’ironia.
– Ethan Edwards –disse guardandomi.
– Esatto.
–È un nome che mi dice qualcosa.
–Non saprei. È la prima volta che vengo a Riddick.
–Il nome mi dice qualcosa. La sua faccia no.
–E lei non dimentica mai un volto, giusto?
–Può scommetterci.
–Se lo ricorda John Wayne?
E per finire, le digressioni. Quelle parti che non sempre si trovano nei romanzi, le bestie nere degli editor e delle scuole di scrittura, quelle parti disprezzate come “didascaliche”, “effetto Wikipedia”, “infodump” la cui lettura invece arricchisce e che io, lettore, apprezzo senza riserve.
(..) un tempo era esistito un popolo, una nazione la cui gente libera viveva nelle Grandi Pianure, dal corso del fiume Platte fino al monte Heart, dalle foreste del Minnesota fino al Missouri e alla catena dei Bighorn.
Era la nazione sioux.
I loro uomini e le loro donne vagavano nelle praterie con le tende a forma di cono, cacciavano i bisonti, credevano in Wakan Tanka, l’uno e molti, il Grande Spirito, il Creatore. Avevano combattuto contro l’uomo bianco, avevano vinto a Little Big Horn ed erano stati macellati da assassini in uniforme a Wounded Knee.
Zamberletti sa muoversi tra gli stereotipi dei generi narrativi aggiungendo salsa di peperoncino a una pietanza messicana già piccante: il cavaliere solitario senza macchia e senza paura, il mito della frontiera, la brutalità delle guerre, il soldato che obbedisce sempre senza discutere mai eppure non condivide nulla di ciò che fa.
Marshall, il protagonista di questo romanzo, è uno dei personaggi più noir della narrativa italiana, antieroe dal codice morale inflessibile. Si muove in una vicenda narrata con tutte le sfumature di cui è capace una scrittura ricca e policroma.
I romanzi di quest’uomo dovrebbero comparire nelle librerie di tutto il mondo accanto ai Grandi Autori del genere. Le case editrici sono avvertite: stendete un tappeto rosso e accogliete nella vostra scuderia Antonio Zamberletti, fategli un contratto per cinque romanzi, e renderete felici molti lettori.
Marshall & Co, Segretissimo special nr. 21, agosto 2024, nelle edicole e in digitale. Non vi deluderà.