Quando ci si imbatte in La ruga del cretino, romanzo scritto a quattro mani da Andrea Vitali e Massimo Picozzi, l’impressione iniziale è quella di un libro che si lascia leggere con facilità, quasi con distrazione. Scorrevole, leggero, costruito per accompagnare senza impegno un paio di pomeriggi oziosi, magari sul treno o sotto l’ombrellone. E va detto: sotto questo aspetto fa benissimo il suo mestiere. Ma è proprio qui che cominciano i problemi.
Il romanzo ruota intorno a un’idea potenzialmente interessante – il ritrovamento di una serie di cadaveri accompagnati da un misterioso codice matematico – eppure tutto sembra ridotto a un’operazione di superficie. Il tono sarebbe anche quello della commedia nera, con una punta di satira e un vago tentativo di critica alle derive pseudoscientifiche, ma il risultato, purtroppo, resta piatto, anonimo e tutt’altro che ficcante.
La satira di Lombroso, che poteva diventare un’irriverente riflessione sui pregiudizi travestiti da scienza, è appena accennata, e comunque sviluppata in modo troppo blando per lasciare davvero il segno. Si ride poco, si riflette ancora meno. E allora ci si aspetterebbe almeno una buona galleria di personaggi, qualche figura memorabile, qualche dinamica che tenga viva la curiosità. Invece no: i personaggi sono talmente bidimensionali da sembrare cartoncini ritagliati e incollati su uno sfondo generico. Ognuno recita la sua parte senza uscire dai margini del copione, senza mai sorprenderci, senza mai rivelare qualcosa che non sia immediatamente intuibile.
L’unica eccezione forse è il personaggio di Birce, una reietta con percezioni extrasensoriali dal nome improbabile, che mostra un briciolo di personalità e riesce, qua e là, a restare impressa. Ma è troppo poco per sostenere un intero romanzo. Il resto è routine narrativa, una serie di scene che si susseguono con precisione da fiction televisiva, dove tutto sembra costruito per non turbare, per non esagerare, per non esporsi troppo – ancoa più blando di un cozy crime.
Lo stile è quello classico del “romanzo easy reading”: frasi brevi, dialoghi funzionali, nessun guizzo particolare, nessuna ambizione letteraria, nessuna ricerca stilistica. È una scrittura che non infastidisce, certo, ma nemmeno coinvolge davvero. È come un sottofondo musicale in un supermercato: ti accompagna mentre fai altro, ma appena uscito già te lo sei dimenticato. O forse nemmeno ti sei accorto che c’era.
E poi c’è il finale. O meglio, il non-finale. Perché La ruga del cretino si chiude con un cliffhanger piuttosto evidente, come se ci si aspettasse un seguito, un secondo capitolo, un “ritorno del cretino”. Ma il seguito non è mai arrivato. Chissà perché. Forse gli autori stessi si sono resi conto che, dopotutto, non c’era molto da aggiungere. O forse anche loro si sono un po’ annoiati, scrivendolo. “Un po’” vorrebbe essere un eufemismo.
Insomma, La ruga del cretino è un romanzo che vive di quella leggerezza che spesso affonda nell’inconsistenza. Si legge in fretta, si dimentica altrettanto in fretta. Non fa arrabbiare, non fa entusiasmare, non lascia tracce profonde. È, in fondo, un romanzo che assomiglia un po’ alla ruga di cui parla: una piega superficiale, una curiosità anatomica che non conduce da nessuna parte. Una ruga piuttosto… cretina.