C’è una stanza ampia come un campo di calcio
e stretta come una credenza.
Da un lato, un tavolino basso porta le cartelle su un arco a leva
E chiunque può sfogliarle: fotografie di bambini,
gemelle in tutine rosa, piccole felpe blu,
con qualche dente e senza denti,
neonati senza un capello o con i primi ciuffi.
C’è una stanza ampia come un campo di calcio
stretta come una credenza, dove le persone siedono in silenzio,
stringono morbide tazze di plastica con acqua ghiacciata,
dove le sedie sono di dimensioni discrete e distanziate
così le coppie non devono toccarsi
a meno che non vogliano.
C’è una sala d’attesa con uno schermo da proiettore
da un lato, grande come una vetrata, che spiega
attraverso vibranti illustrazioni alle persone sedute tranquillamente,
persone che hanno più che probabilmente fatto ricerche
sull’edificio e i suoi occupanti
fino ai dettagli dei pavimenti, cosa succederà
negli ambulatori che non hanno ancora visto.
C’è una stanza dove le persone siedono in silenzio, aspettano
in due o da soli come se tutte le conversazioni li avessero portati lì
ma fossero finite prima, nel parcheggio, o si fossero esaurite
la sera prima tra tazze di tè, quando il discorso si era spinto
fin nella notte su cicli, ormoni, iniezioni,
sussurri di quello che avrebbero contrattato per conoscere
la sensazione di avere il piede del loro bambino tra le dita.
C’è una sala d’attesa, silenziosa
tranne per le scarpe che scivolano sul tappeto opaco, piano
tranne per il ronzio del raffreddatore dell’acqua,
la voce secca della radio dal volume controllato,
canzoni pop di ragazze che promettono
qualcosa di nuovo, canticchiate con sentimento
su un astratto ‘per sempre’, che non sapranno mai
quanto la loro voce stia sospesa su persone che possono solo aspettare
che i loro nomi vengano chiamati
dalla donna in camice con la tavoletta degli appunti.