Liberamente tratto da “Come trovarono un’isola
nella quale è Inferno” di San Brendano*
Era il diciassettesimo giorno di mare aperto quando l’equipaggio dell’Erebus Nocturnum scorse, tra i vapori glauchi dell’orizzonte boreale, un’isola nera come il carbone di Dio. Ce ne stavamo sul ponte, infagottati e muti, fissando quella massa informe e rocciosa emergere dalle nebbie come il teschio d’un mondo estinto.
Il nostro capitano, l’Abate Morris – un uomo dalla barba rossa e dagli occhi acquosi come due reliquie immerse nella formalina – si fece il segno della croce non appena le sagome delle forge apparvero, cinte da lingue di fuoco che guizzavano verso il cielo plumbeo.
«Fratelli», mormorò, «non è terra d’uomini quella che vedete. È un lembo d’inferno affiorato, un grumo del basso mondo sfuggito all’ordine divino».
A riva, sulle scogliere di ossidiana, colossi ferrosi battevano incudini incandescenti con martelli grandi quanto una campana da morto. I loro corpi erano fusi con le macchine: le braccia sembravano tubi da cui stillava vapore rovente, e i volti – se così potevano chiamarsi – erano maschere bovine incrostate di fuliggine e terrore.
Un tanfo orribile – mistura di zolfo, ferro bruciato e carne scorticata – si levava dalle fornaci, e un urlo continuo, simile a quello delle sirene degli abissi, pulsava nell’aria come un battito cardiaco impazzito.
Sorella Agnès, che si occupava della cartografia mistica, cadde in ginocchio e cominciò a gemere versi in latino deforme. Un monaco laico, fratello Jude, la prese per le spalle, ma anch’egli vacillò non appena un’ombra più grande delle altre si staccò dalla riva e mosse verso di noi, camminando sull’acqua.
Era un essere coperto di peluria nera come il ventre di un’aragosta cieca, con la pelle fumante e gli occhi rossi quali ferri battuti. Aveva mani come tenaglie e una pala ardente che roteava sopra la testa con lentezza rituale. Quando alzò il braccio, la pala sfrigolò come carne nell’olio e venne scagliata verso di noi.
Il metallo non ci colpì. Cadde dietro la nave, nel mare, e l’acqua si mise a bollire come un pentolone di streghe. Per tre giorni navigammo nell’acqua che ribolliva di fiamme e anime dannate: si udivano voci – o illusioni – che imploravano misericordia, e braccia bianche e scarne che affioravano come rami secchi nel sangue.
«Abbiamo varcato la soglia del mondo visibile» disse l’Abate, il volto attraversato da una luce spettrale. «È il margine dell’Abisso. Dove i venti non portano sale, ma memoria di colpa».
Proseguimmo verso occidente, ma l’isola ci seguiva. O così sembrava: una massa enorme di roccia e fuoco, come se un monte avesse preso il largo. Su di esso si scorgevano draghi scheletrici, leoni di cenere, grifoni flaccidi e giganteschi serpenti che si masticavano la coda. Da una fenditura nella roccia colava un fiume di sangue vivo, che scendeva nel mare schiumoso lasciando una traccia iridescente, come d’olio vecchio.
Fratello Eliah, un giovane dal cuore irrequieto, saltò dalla nave e corse verso la riva, gridando di aver visto la madre fra le onde. Scomparve subito, risucchiato. Lo vedemmo comparire e scomparire, nove volte inghiottito da un dragone che sembrava respirare attraverso le viscere della terra. A ogni resurrezione il suo volto era più simile a una larva che a un uomo.
Infine, quando il sole tornò a filtrare tra i vapori densi, ci trovammo in mare aperto. Alle nostre spalle l’isola bruciava, emettendo un ruggito sordo e costante, come un cuore meccanico inchiodato alla crosta del mondo. Per sette giorni potemmo vedere, in lontananza, il bagliore delle sue fiamme sull’orizzonte, come un faro per dannati.
L’Abate scrisse tutto nel suo diario, ma prima di morire volle farci promettere che nessuno avrebbe mai cercato quella terra, né tracciato mappe, né lasciato nomi.
«Non era un’isola», disse. «Era una risposta».
E non aggiunse altro.