Stefano Morzenti – La lettera

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La porta dell’ascensore si aprì cigolando sul pianerottolo. Daria ne uscì barcollante, con le labbra che sapevano ancora di vodka alla fragola, il rossetto sbavato e i capelli scompigliati. Si appoggiò alla porta di casa e iniziò a frugare nella borsetta. Tra un reggiseno di pizzo e un mascara riuscì ad agguantare le chiavi, ma le sfuggirono dalle dita e caddero tintinnando sul pavimento. Ridacchiò tra sé, un po’ troppo forte, e si chinò a raccoglierle. Le pareti gialle le vorticarono attorno.
Dopo un paio di tentativi falliti riuscì a infilare le chiavi nella serratura e, con un colpetto maldestro, spinse la porta ed entrò nel piccolo appartamento.
La luce era accesa.
Luca era seduto sulla sua vecchia poltrona da lettura con ancora addosso la camicia bianca e i pantaloni del lavoro. Solo il colletto sbottonato gli dava un’aria meno ingessata del solito. In mano stringeva un bicchiere di vino rosso e, ai suoi piedi, giaceva una bottiglia vuota per metà.
«Amo, che ci fai ancora sveglio?» cinguettò Daria posando la borsetta sul suo pianoforte, tra decine di spartiti scarabocchiati. «Domani non attacchi alle sette?».
Luca vuotò il bicchiere e se lo rigirò tra le dita. «Quando sono tornato ho trovato quella».
Sul tavolo, tra i piatti di una cena per uno, c’era una busta strappata con il logo di una casa editrice.
Daria appese il giacchetto all’attaccapanni rivelando un nuovo top argentato che non riusciva a contenere nemmeno la metà della sua quarta abbondante. «Ma hanno mandato una lettera?». Con un gesto incerto si sfilò i sandali e li abbandonò in mezzo alla stanza. «Sono proprio giurassici, gli avevo lasciato la mia mail».
Luca chiuse gli occhi e appoggiò la nuca allo schienale. «Non ne avevi il diritto».
«Ma dai, cucciolo, non farla troppo lunga». Si tolse gli orecchini e li appoggiò su un ripiano della libreria. «I tuoi racconti sono così belli e tu li tieni rinchiusi in quel tuo computer. Era ora che qualcuno li leggesse, no?».
Luca non rispose e si versò un altro bicchiere.
«Beh, almeno mi dici cos’hanno risposto?».
«Che dovrei smettere di inviare i miei racconti. Che mi hanno già comunicato più volte di non essere interessati ma, nonostante i loro rifiuti, continuo a mandarne uno a settimana».
Daria afferrò la busta ma la lettera non c’era. «Che stronzi, mica gli mandavo lo stesso racconto tutte le volte».
Luca bevve un lungo sorso. «I racconti non si mandano uno alla volta». Sospirò. «E comunque avresti dovuto chiedermelo».
Lei gli scompigliò i capelli. «Su, passerotto, non mettere il broncio». Allungò la mano verso il bicchiere, ma lui lo allontanò. «Facciamo così, adesso mi faccio una doccia e quando esco trovo il modo di farmi perdonare, ok?».
Lui borbottò qualcosa d’incomprensibile mentre Daria si avviava verso il bagno.

***

Dopo quindici minuti lo scrosciare dell’acqua si fermò.
Daria aprì la porta del bagno e una leggera coltre di vapore si sparse per l’appartamento. Indossava solo l’asciugamano e la pelle umida scintillava di goccioline. Fece qualche passo e i piedi nudi lasciarono piccole orme regolari sul pavimento. Le sue curve prosperose si muovevano con la grazia sicura di chi sa di attirare lo sguardo.
Luca non si era mosso dalla poltrona. La bottiglia era vuota.
«Sei ancora arrabbiato?».
Lui si stropicciò gli occhi arrossati. «Non erano ancora pronti per essere letti, stavo aspettando…».
L’asciugamano scivolò a terra. «Sai?». Daria avanzò con un sorriso. «Stavo pensando che potrei lasciarti fare quella cosa che ti piace tanto».
Un brivido di eccitazione attraversò il corpo di Luca.
Daria ancheggiò fino alla poltrona e si sedette sul bracciolo. «Adesso rilassati e non pensarci più». Con dita esperte iniziò a sbottonargli la camicia. «Se non hanno capito il tuo talento, peggio per loro».
Luca chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla sua voce.
Le mani di Daria gli accarezzarono il petto. «I tuoi racconti sono molto più belli dei libri di quel tuo scrittore russo». Gli baciò il collo. «Sono pieni di passione». Gli mordicchiò l’orecchio. «Di cose profonde». Gli si mise in braccio e avvertì distintamente il frutto della sua eccitazione. «Non importa cos’hanno detto». Gli passò le mani tra i capelli e lo tirò a sé, premendogli la faccia tra i seni. «Qualche editore non ha ancora risposto, sono sicura che a loro sono piaciuti».
Luca si irrigidì e si divincolò dall’abbraccio. «Cosa?».
Daria gli accarezzò il naso con un dito. «Sì, qualcuno ha detto che non era interessato, qualcuno che non valuta gli esordienti e qualcun altro è stato anche piuttosto sgarbato, ma ho inoltrato le mail a così tante case editrici che sicuramente qualcuna ti vorrà pubblicare».
Luca sbiancò. «Quante?».
«Quante cosa?».
Si sporse in avanti. «A quante hai scritto?».
«Non lo so, non ho tenuto il conto». Si strinse nelle spalle. «Mah, saranno una trentina, forse di più. Comunque, ho già mandato un’altra ondata stamattina».
Luca si alzò di scatto, facendola cadere goffamente sul tappeto. La bottiglia vuota rotolò lontano. «E quante hanno detto che faccio schifo?».
Daria si massaggiò il fondoschiena. «Ahi, mi hai fatto male!».
«Ti ho chiesto: quante?».
Lei sbuffò. «La metà, più o meno. Le altre non hanno risposto, ma ho già mandato almeno tre mail per sollecitarle».
«Non ci credo…».
Daria si rialzò. «Ma non vuol dire niente, amore mio. Sai che noi artisti…».
Lui rise e scosse la testa. «Vuol dire solo che come scrittore faccio pietà almeno quanta ne fai tu come compositrice».
«Vaffanculo, Luca!» sbottò lei puntandogli un dito contro il petto. «Io sono brava nel mio lavoro!».
«Lavoro?». Rise ancora più forte, infischiandosene dell’ora tarda e dei vicini. «Per un lavoro si viene pagati, altrimenti è un hobby». Fece un passo verso di lei. «A te al massimo offrono da bere, e non certo per la tua musica».
Il volto di Daria avvampò. «Per una volta che tiri fuori le palle lo fai per insultarmi? Bravo!».
Lui le voltò le spalle. «È quello che ti meriti».
«Smettila di atteggiarti a vittima. Ho solo fatto quello che tu non avresti mai avuto il coraggio di fare».
«Coraggio?». Afferrò la busta vuota e l’accartocciò nel pugno. «Il coraggio sarebbe mandare i miei racconti in giro come un disperato per farmi umiliare da gente che neanche mi conosce?».
Daria aveva le lacrime agli occhi. «Sei ridicolo, ti comporti come un bambino».
«Io sono ridicolo?» ringhiò. «E tu, allora? Tu che suoni in locali di merda, sperando che qualcuno ti noti mentre canticchi per quattro sfigati distratti?».
Uno schiaffo risuonò nella stanza. «Sei uno stronzo!».
Luca si massaggiò la guancia. «Forse, ma adesso sono stanco. Vado a letto perché domani, io, devo andare al lavoro». Fece una pausa. «Tu fai quello che ti pare, come sempre».
«Guarda che se me ne vado questa volta non torno più indietro». La voce di Daria era rotta dal pianto.
Lui la squadrò dalla testa ai piedi e sorrise. «Almeno prima rivestiti». E sparì oltre la porta della camera da letto.

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