Heiko H. Caimi – L’irregolare

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Dedicato a David La Mantia*

Era uno di quei bar in cui il pavimento appiccica e i bicchieri puzzano di birra stantia anche quando sono vuoti. Lui, il vecchio, stava seduto al solito tavolo d’angolo, con una sigaretta che sembrava più lunga del suo futuro. Io, che mi credevo un poeta, avevo appena letto i miei versi al microfono del festival – quattro gatti in sala, di cui due dormivano – ma mi sentivo vivo, come se avessi sputato dentro l’eternità. Ero ancora carico di adrenalina, con gli occhi lucidi e la voce che mi tremava un po’ per l’emozione o per la birra.
Mi ero appena seduto al bancone, e il barman, uno di quei tipi che sembrano nati già stanchi, mi aveva chiesto com’era andata la serata.
«Bene, credo. Non eravamo in tanti, ma mi hanno ascoltato. Sai, la poesia ha bisogno di cuore, non di pubblico» avevo detto, tirandomi su le maniche e con il desiderio di improvvisare un’altra poesia lì, sul bancone.
Il vecchio, seduto qualche sgabello più in là, sollevò lo sguardo dal bicchiere. Aveva l’aria di chi ha visto morire più sogni che persone. «Cuore, eh?» borbottò. «Il cuore serve per pompare il sangue, mica per stampare versi nella testa delle persone».
Risi, pensando che fosse una battuta. «Io credo che, se uno ci mette l’anima, prima o poi qualcuno se ne accorge».
Fu allora che il vecchio si voltò completamente verso di me, mi fissò con un’espressione che era a metà tra la pietà e l’irritazione, soffiò il fumo e disse: «Sai, ragazzo, io non partecipo a premi. Non mi pubblicano sulle riviste importanti. Non ci provo neanche». Poi fece un sorso, guardando oltre la bottiglia, come se lì dentro ci fosse il senso della vita, o almeno un buon pretesto per restare sveglio. «Se qualcuno mi cerca per collaborare, è roba loro, non mia. Nella mia città mi considerano un fastidio. Un errore di battitura nella poesia ufficiale». Rise, ma senza gioia. Una risata sorda, come il rumore di un accendino che non funziona.
Lo guardai cercando di capirlo. Non partecipava a premi, non mandava poesie alle riviste, diceva che non ci provava nemmeno. Ma allora chi diavolo era? Un poeta estinto? Uno di quei reduci che scrivono ancora per abitudine, come chi continua a fumare anche se ha smesso di crederci?
«Ma allora lei… cosa fa?» gli chiesi, con quella curiosità ingenua che non riesci a trattenere quando credi di avere di fronte un relitto prezioso. «Se la sua città la considera un fastidio… perché scrive ancora? E chi la pubblica, poi? È un… un ex poeta?».
Lui fece una smorfia, come se le mie parole gli avessero graffiato i denti. Poi rise, ma era una risata stanca, senza un grammo d’allegria. «Non esistono ex poeti. O sei poeta, o non lo sei. Ma, per rispondere alla tua domanda… collaboro, quando capita. Ma non chiedo niente, non mi metto in fila. Non c’è gloria, qui. Solo gente che si racconta storie per non sentirsi inutile».
Mi limitai ad annuire, cercando di non sembrare troppo idiota. C’era in lui qualcosa di disarmato e feroce insieme, come uno che ha amato la poesia fino a farsi male, e adesso la disprezza per non doverla seppellire.
Cercai di dire qualcosa, tipo che la poesia è resistenza, o purezza, o qualche altra cazzata che suonava bene nella mia bocca di ventenne.
Lui m’interruppe: «Lascia perdere, non c’è niente di puro in questo circo. Al festival della poesia, dove non ho letto nemmeno uno dei miei versi, c’eravate tu e quattro persone di Grosseto. E allora? Io continuo con L’irregolare. Voci, poesie, insubordinazioni. Do spazio a tutti, continuerò a farlo finché potrò. Simpatici, antipatici, raccomandati, timidi, esaltati. Tutti. Tanto contiamo poco. Meno di zero». Bevve un altro sorso. Gli tremava la mano, ma non era il freddo: era la vita. «Sai chi aiutava chi? Carducci diede una mano a Pascoli. Montale a Saba. Sbarbaro si pubblicò da solo, con la colletta dei compagni di scuola. È una cosa ingiusta? Macché. Ingiusto è annegare mentre scappi dalla guerra. Ingiusto è guardare tuo figlio morire o perdersi dietro a una chimera. Ingiusto è lavorare gratis per un capo che ti sorride come se ti avesse fatto un favore. Non essere considerati come poeti… quella è soltanto vanità, ragazzo. Vanità travestita da dolore».
Io lo ascoltavo come si ascolta un vecchio ubriaco che però, tra una bestemmia e l’altra, dice la verità. Però provai a tenergli testa, tanto per non sembrare solo un ragazzino spaesato. Buttai lì la solita lamentela che avevo letto mille volte nei gruppi di poeti sui social, quelli che si sfogano a mezzanotte contro il sistema letterario e poi mettono like ai post dei vincitori: «Eh, però… gli amici degli amici vengono sempre pubblicati» dissi, cercando di dare alla voce un tono indignato. «E spesso pure osannati, come se avessero riscritto la Bibbia. Le riviste si passano i nomi, i premi se li spartiscono tra loro… insomma, le solite conventicole, no?».
Lui alzò piano lo sguardo su di me, con l’aria di uno a cui è toccato ascoltare la stessa frase da almeno trent’anni, sempre uguale, solo detta con più emoji. Poi scosse la testa, prese un altro sorso di birra e disse, quasi con dolcezza: «Le conventicole ci sono sempre state, e anche se non ci fossimo dentro, non cambia niente. Non esistono tutti questi geni dimenticati; forse dieci, venti… cinquanta, se vogliamo esagerare. Ma gli altri? Gli altri siamo noi, i normali, i dimenticabili. Quelli che non hanno lasciato il segno. E sai che c’è? È bello crederci, che il mondo ce l’abbia con noi. Che abbiamo fallito solo perché non siamo raccomandati. Bello immaginarci sulle barricate, come eroi romantici. Ma alla fine il tempo seppellirà tutti i nostri versi sotto una coltre di polvere e disattenzione. E continueremo a non essere nessuno come prima. Nessuno ci riscoprirà, perché non c’è niente da riscoprire».
Lo guardai con sconcerto, catalizzato dal suo sguardo rassegnato, eppure così vivace.
Lui restò in silenzio per qualche istante, guardando la bottiglia mezza vuota come se fosse uno specchio. Poi concluse piano: «Finché siamo su questa terra, l’unica cosa decente che possiamo fare è ascoltarci tra di noi, bere qualcosa e godere di quei pochi minuti in cui le parole sembrano ancora vive. Poi passa tutto, anche la poesia». Si accese un’altra sigaretta. Come un epitaffio.
Io non dissi nulla. Per la prima volta capii che forse la poesia non serviva a cambiare il mondo. Serviva solo a sopportarlo.


* Liberamente ispirato a un suo scritto

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021), "Ci sedemmo dalla parte del torto" (con Viviana E. Gabrini, Prospero, 2022), "Niente per cui uccidere" (con Viviana E. Gabrini, Calibano, 2024) e "Trasformazioni. Storie dal pianeta che cambia (con Giovanni Peli, Calibano, 2025). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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