C’è una nuova forma di miopia intellettuale che avanza mascherata da sensibilità letteraria: quella di chi legge solo romanzi scritti in prima persona, rifiutando con una smorfia tutto ciò che odora di terza. Costoro, con l’aria compunta del sommelier del vissuto, scartano qualunque narrazione che non sia filtrata dall’“io” come se l’empatia, la verità, la profondità psicologica – addirittura la vita stessa – abitassero unicamente dentro i confini angusti della soggettività dichiarata.
Ma davvero pensiamo che l’autenticità di un’esperienza dipenda dal pronome? Che la letteratura viva solo quando la voce narrante coincide col protagonista? Allora gettiamo via Tolstoj, Mann, Woolf (che con la terza ci ha fatto l’anatomia dell’anima), Calvino, García Márquez, Proust, Yourcenar, e perché no: anche Dante, ché l’“io” nella Commedia è un tramite, non un confessionale.
Il feticismo della prima persona è il selfie della narrativa: tutto deve essere filtrato da un “me stesso” costante, rassicurante, limitato. La terza persona – quella che abbraccia, che osserva, che include più di un punto di vista – fa paura. Richiede uno sforzo d’immaginazione, di decentramento, di ascolto. Ma è proprio lì che la letteratura si fa grande: quando ci trascina fuori da noi, invece di chiuderci nella gabbia dorata del nostro riflesso.
Chi legge solo in prima persona non cerca storie, cerca conferme. Non vuole il mondo, vuole lo specchio. E non c’è nulla di più ottuso che scambiare l’ego per l’universo narrativo.
Chi legge solo in prima persona non ama la letteratura: ama sentirsi raccontare soltanto se stesso con parole altrui.
Heiko H. Caimi
























