Riflettevo su un post che ho letto qualche giorno fa su facebook. Tema trito e ritrito sulla morte del romanzo e che questo non rappresenterebbe più il linguaggio attraverso cui comunicare il nostro tempo. Si citano al solito gli stessi scrittori, Joyce in primis: dopo di lui – a suffragio di questa tesi – non esisterebbe più nulla. Ci sono altri lignaggi espressivi quindi cui soccombere, che riuscirebbero a rappresentare l’epoca che viviamo.
Questa storia del romanzo morto la conosco da una vita, e un po’ la sostenevo pure io, soprattutto durante il periodo del master, quando la mia arroganza sfilava sotto i portici bolognesi rumoreggiando la sua pretenziosa verità.
Sbaglierò ma mi sembra un ragionamento piuttosto pretestuoso, che coinvolge pochi eletti, per lo più annoiati, inclini a mantenere le distanze con la guarnigione di lettori che nel romanzo trovano ancora il luogo migliore ove custodire una storia.
Romanzo morto è argomento da salotto, di un salotto liberale e conservatore.
Alessandro Magno si addormentava con il testo dell’Iliade e sognava epiche imprese come il suo idolo Achille, Don Chisciotte faceva lo stesso con i suoi romanzi cavallereschi e milioni di altre persone sognano grazie a questi blocchi di carta.
Piuttosto, penso, prima di parlare di morte del romanzo, bisognerebbe immunizzare la popolazione, a cominciare dalla nostra, attraverso la lettura; perché passare ad altri linguaggi, ipoteticamente più adatti a rappresentare la realtà, bypassando quello primordiale, nonché mitico, si finisce a far la sponda a istituzioni come la chiesa, che per secoli ci ha raccontato la parola di Dio in latino.