Gianni Mura, giornalista e scrittore, si è spento il 21 marzo 2020 a 74 anni. Nato a Milano nel 1945, era una delle firme storiche più importanti del giornalismo sportivo, specialmente per quanto riguarda il ciclismo e il calcio. Come scrittore aveva vinto il Premio Grinzane per il suo primo romanzo, Giallo su giallo. È stato l’allievo prediletto di Gianni Brera e ha scritto per la Gazzetta dello Sport, Epoca, l’Occhio e La Repubblica. La sera prima di spegnersi aveva telefonato in redazione per avvertire che non avrebbe potuto consegnare l’articolo per la sua rubrica: “Sono Gianni, volevo avvisarvi che domani non scriverò la mia rubrica. Qui in ospedale non mi hanno portato il pc e neanche i giornali. Scusatemi”.
Lo abbiamo incontrato durante la rassegna Libri in Movimento, a Provaglio d’Iseo, a poca distanza dalla sua residenza a Carzano, Montisola, dove si riposava dal lavoro e da Milano. Il libro al centro dell’incontro ha un titolo che suona come un epitaffio: Non gioco più, me ne vado.
Abbiamo deciso di pubblicare la trascrizione dell’incontro per ricordarlo, con il suo spessore di giornalista e di uomo. A intervistarlo il giornalista Angiolino Massolini, suo collega ed amico.
La Redazione
Non gioco più, me ne vado: perché questo titolo?
Non lo amo per niente, ogni volta devo spiegare che non me ne vado. Grazie a un’idea del grafico questa foto era una nuvola, di me si vedeva un occhio, avevo una sigaretta in mano e tutto il resto era fumo. Non mi piaceva, perché intanto non si fa réclame al fumo in una copertina, e poi sì, avevo la sigaretta in bocca, ma lui aveva raddoppiato il fumo. Ho detto al mio editore che mi sembrava il libro perfetto da presentare all’istituto dei tumori! Perciò ho barattato la scomparsa del fumo con un titolo che non mi piace, e che è l’unica cosa che non mi piace, visto che tutto il resto l’ho fatto io. È un libro fondamentalmente onesto, in fase di stampa non è stata toccata una virgola né una parola.
Io credo che sia una miniantologia con una produzione molto vasta.
Sì, è un’antologia spinta, c’è anche un pezzo sulla pesca sportiva che avevo dimenticato di aver scritto. Gli sport di cui ho scritto di più sono il calcio e il ciclismo, però ci sono anche pezzi con personaggi scomparsi da tempo: Zeno Colò con lo sci, e Ondina Valla, che vinse i 110 metri ostacoli a Berlino nel 1936, donna meravigliosa e triste a cui hanno rubato anche la medaglia. C’è un po’ quest’idea dello sport dell’altroieri. Parlare di sport è difficile: di cosa si parla? Di quale? Lo sport è una cosa talmente vasta che quando mi chiedono cos’è, io dico: «È quello che scende con i pantaloncini e va a correre nella nebbia, rischiando di farsi investire mentre controlla il cronometro». Per me quello è uno sportivo!
Qual è il criterio con cui avete deciso di inserire questi articoli nel libro? Ce n’è uno in particolare?
No, l’unico criterio è che ho detto «Fate tutto voi» ai due curatori[1], e hanno scelto loro. Io ho scelto di non scegliere, perché è come stabilire se vuoi più bene a papà o a mamma, quale sia venuto meglio fra questo e quello. Non sono scontento del risultato, ci hanno messo molte cose. È anche un libro pesante, sono cinquecento pagine: è il libro più grosso con la mia firma.
La maggioranza sono articoli di un paio di cartelle, non di più. Ma in qualche occasione hai rappresentato il personaggio, dilungandoti in modo straordinario. Ad esempio, Gianni Brera: l’articolo su di lui è incredibile. Tu sei molto legato affettivamente a questo giornalista, e nella descrizione del suo incidente è venuto fuori il vostro rapporto amichevole e tutto il tuo volergli bene.
Sì, credo che nei pezzi ci siano delle difficoltà oggettive che andrebbero misurate, come nei tuffi. Questo era difficilissimo; un po’ perché era Brera che era morto, un po’ perché ero a Malta, un po’ perché mi hanno svegliato alle sei per dirmelo, un po’ perché fino alle dieci continuavano a telefonarmi e non ho scritto una riga, e un po’ ero bloccato. Poi ho deciso di cominciare nello stesso modo in cui avrebbe cominciato lui, e lì mi sono sciolto: cinque cartelle e mezzo. Era difficile, però era come se con questo pezzo saldassi un debito: ci tenevo molto a non sbagliarlo. Io sono per un giornalismo che trasmette emozioni – non ho mai capito il cosiddetto giornalismo anglosassone – però bisogna stare attenti a non gonfiarlo troppo, specialmente quando c’è una morte di mezzo, perché poi si tende ad essere troppo retorici e sentimentali. Francamente non so come ho fatto a scrivere un pezzo così, sono passati venticinque anni oramai, però so che l’ho fatto, e sono contento che mi sia uscito così.
Per chi non lo sapesse una cartella è un foglio A4, 30 righe per 60 battute, cioè milleottocento battute: è un fatto giornalistico straordinario.
Nel giornalismo di oggi è un fatto straordinario, ma in quello degli anni Sessanta era normale. A volte mi riguardo delle vecchie collezioni di giornali, perché per poter parlare male dei giornalisti di oggi bisogna anche avere coscienza del passato. Oggi c’è solo lo staff che scrive cinque cartelle, la regola oramai è che la gente non ha tempo di leggere, anzi, è già tanto se compra un giornale di carta, perciò non bisogna dilungarsi troppo, bisogna scrivere in maniera breve. C’è una parola orrenda che è restyling, per cui siamo passati tutti da Brescia a New York, e fondamentalmente vuol dire che, se danno titoli e foto grandi, i pezzi sono più piccoli. Ogni restyling corrisponde a un’erosione del pezzo e della scrittura. Questo era già cominciato prima del web e dei giornali online, e per me è la morte della professione. Gli spazi si sono sempre più ridotti. Forse è vero che la gente ha poco tempo, ma io il tempo per leggere il giornale lo voglio: con il rito del mattino, con il primo caffè e la prima sigaretta, oppure leggerlo in treno, in metrò; è un’abitudine di cui non potrei far a meno, e non potrei leggere un libro su uno di questi cosi quadrati.
È più difficile fare questo mestiere adesso?
Sì, è terribilmente più difficile. A volte mi sembra di vivere in un Paese straniero, tipo l’Ungheria o la Finlandia: non capisco una parola. Vengono usati verbi che non voglio neanche approfondire, tipo scannerizzare, oppure tutte queste cose dell’IPad, degli start-up. Voglio dire, per me tutto questo è un simbolo di inferiorità culturale: tutti quelli che scrivono red carpet a Venezia quando possono scrivere tappeto rosso, a me fanno pena.
Nel Tour de France del 1995, Fabio Casartelli, che aveva vinto le Olimpiadi nell’anno precedente, è scomparso dopo due ore e mezza di agonia in quella caduta tremenda dove cascarono in moltissimi. Credo che il pezzo fatto in quell’occasione sia davvero da scuola di giornalismo: in poche righe hai dipinto quanto accaduto, e credo che la gente abbia conservato questo articolo. Che sentimento ti ha dato questo evento?
Quello che del resto ha dato a tutto il gruppo: è stata una morte molto sentita. Anche se aveva vinto le Olimpiadi di Barcellona non lo conoscevano in molti: lo conoscevano in Lombardia quelli che si allenavano con lui. Quando è morto tutti hanno pensato che sarebbe potuto accadere anche a loro, perché non aveva preso dei rischi, non era partito di colpo in discesa, era uno a tre quarti di gruppo che non aveva il casco e ha sbattuto la testa contro uno spigolo di cemento. Aveva un bambino di pochissime settimane. Il giorno dopo, e questo spiega perché sono così affezionato al ciclismo, una delle tappe più importanti, con un sole che picchiava a quaranta gradi, è stato un funerale. Il gruppo è andato a venticinque all’ora per duecento chilometri, e negli ultimi trecento metri ha lasciato sfrecciare davanti gli amici di Casertelli, che hanno vinto tutti sulla stessa fila. C’era una simbologia profonda. La bici, montata su un’ammiraglia, è andata fino a Parigi, e Leblanc, gran capo del tour fino a qualche anno fa, aveva solo una foto, ed era quella della bici di Casertelli sull’ammiraglia. Li ha colpiti perché non si può dire che non fosse nessuno, era uno del gruppo e, per un gioco che di certo non ha voluto lui, è diventato tutti quelli del gruppo.
Dal ciclismo al calcio: Madrid 1982 e Berlino 2006, due vittorie diverse, due resoconti diversi. In quella del 2006 hai accostato ad ogni giocatore un profumo, un vino e un colore. Come mai queste differenze?
Ho sentito molto meno il mondiale del 2006 che quello dell’82. Nel 1982 la finale con la Germania era di domenica, e La Repubblica non usciva di lunedì, neanche con un quartino. C’era Brera incazzato nero che diceva: «Ecco, sarà l’ultima che lo vedo e non si può neanche scrivere!». Gli è quasi venuto un coccolone. C’era una differenza profonda tra quelle due squadre: la prima aveva molto più talento, e a mio parere giocava anche un calcio migliore. Se uno guarda le due foto, la nazionale dell’82 ha giocatori come Paolo Rossi, che sembrava uno riformato alla leva, Bruno Conti, un raccattapalle con i capelli lunghi, tra gli attaccanti Spillo, che sembrava uno scheletro ambulante, e perfino i difensori non avevano l’esuberanza di coscia e collo, erano un po’ più ruspanti. Secondo me è stato più difficile vincere i mondiali dell’82 che quelli del 2006. Nell’82 la prima firma di Repubblica era Brera, la prima del Corriere era Soldati, la prima del Giornale era Arpino, che per me resta uno dei migliori in assoluto, e per la Stampa c’era Oreste Del Buono.
Nel 2006 non ricordo e non voglio ricordare. Dico questo non per infierire, ma perché nei giornali era già passata la voglia di affidarsi a una scrittura un po’ più alta. Ogni tanto viene chiamato in causa Veronesi, che è un bravo scrittore, ma in qualità di juventino, non di bravo scrittore. Nel 2006 ricordo la grande sfiducia iniziale, le polemiche, il fatto che la partita cruciale era stata quella con l’Australia, e che di tutto quel mondiale il migliore in assoluto è stato Grosso, quello che poi ha avuto la carriera più breve; lui segna il primo goal alla Germania nella semifinale, segna il rigore decisivo alla Francia, un pallone che pesava moltissimo; tolto Cannavaro, le parate di Buffon, Totti, è stato il migliore. All’epoca non è stato messo tanto in evidenza: nello sport vale la regola che se uno è bravo e famoso gli dai una bella gonfiata, male non gli fa e vai sul sicuro, altrimenti è diverso.
Quando l’Italia ha vinto i mondiali nel 2006, sono stati tantissimi a salire sul carro dei vincitori. Tu sei stato tra i pochi che era in servizio e ha scritto quello che in realtà è accaduto.
Sì, adesso c’è la televisione, ognuno può controllare quello che scriviamo. Quando ho cominciato io a lavorare non c’era la tv a colori, le partite le davano un tempo su Rai 2, le corse a tappe non si facevano tutte, ma solo gli ultimi venti chilometri, quindi o tu ti fidavi o eri a casa a sentire la radio, nessuno controllava molto quello che scrivevamo. Oggi è cambiato tutto. Allora l’inviato era una figura sacra, mentre ora è un disgraziato come quello che sta in redazione, telefona tre volte dallo stadio per le rivalutazioni di chi sta davanti alla tv: «Ma era rigore o no? Gli ha sputato o no? Dal labiale cos’ha detto?»
Pantani, Pugni, Chiappucci, Gimondi: qual è stata l’impresa che più di tutte ti ha colpito?
Quasi tutte le vittorie di Pantani di sicuro, e il Sestriere di Chiappucci come portata atletica: una fuga di 226 chilometri, di cui 125 da solo: era un po’ che non si vedeva, se non da qualcuno ultimo in classifica. Invece secondo me, potendo idealmente mettere insieme Chiappucci e Pugni e mischiarli, sarebbe venuto fuori il campione perfetto. Pugni aveva più classe di Chiappucci, ma non il suo carattere, il temperamento o la combattività. Chiappucci era più scarso di Pugni al cronometro, e certe volte anche nelle gare in linea, ma aveva un coraggio da disperato. Ho capito dopo un anno che non era pazzo: aveva quel modo di correre, e mi piaceva per questo, perché era un modo di correre che aveva solo lui. Ai tempi di Coppi, Chiappucci lo avrebbero messo in condizione di non nuocere. De Santi era come Chiappucci, faceva tutto il contrario di quello che diceva Coppi, e per questo stava fuori da tutti i circuiti post-giro. Chiappucci uguale, era capace di attaccare su una curva a gomito, sul bagnato, sull’asciutto, non gliene importava niente se faceva caldo, freddo: lui apriva la finestra, vedeva una nuvola a duecento chilometri e aveva già cominciato a perdere.
In questo libro ci sono notizie inerenti ad alcuni campioni di casa nostra, tanti corridori che hanno fatto la storia del ciclismo italiano. Tu hai parlato di Bartali e Coppi, quali le differenze?
C’è da dire che si volevano molto più bene di quanto si pensasse. Il giorno in cui morì Coppi, Bartali disse: «Mi è morto un fratello». Più invecchio più tendo a ridurre le distanze fra i due. Penso che Coppi avesse una classe immensa, e che avesse, politicamente ed economicamente, un peso maggiore all’interno del gruppo: se c’era da fare un favore a Coppi mezzo gruppo glielo faceva. Bartali, forse perché era un po’ più tirato e non voleva aiuto, era sempre contro le corazzate, o comunque contro Coppi e altri. Detto questo, Coppi aveva una fragilità di ossa immensa, ha avuto tredici fratture, era più avanti sull’alimentazione, si informava all’estero su cosa mangiassero, cosa bevessero, si faceva fare delle borracce di fegato di vitello crudo e champagne, aveva scoperto i fiocchi d’avena, che pochissimi in Italia conoscevano, era molto fragile e con un fisico bellissimo da vedere in biciletta. Bartali era più brutto. A vederli in borghese Coppi aveva sempre cappotti color cammello molto eleganti, sembrava una via di mezzo tra un indossatore e un banchiere; Bartali invece sembrava un contadino. Però, Bartali in tutta la carriera si è ritirato diciannove volte, Coppi un’infinità di più: quando vedeva che il treno era partito scendeva e se ne tornava in albergo, Bartali andava avanti anche se era staccato. Credo che questo di Bartali fosse un modo più giusto di fare sport: devi anche saper riconoscere i meriti di chi ti batte.
Facciamo un salto di tanti anni: Sedrina, ritorno di Gimondi che aveva vinto il tour de France battendo Poulidor; tu entri in cucina e conosci sua mamma.
Sì, sua mamma faceva la postina, e la cosa che mi aveva sorpreso è che aveva chiesto il permesso al parroco per fare questo lavoro, perché andando in biciletta le si vedevano un po’ le gambe.
Perché Gianni Mura non si è presentato alle Olimpiadi di Pechino?
Perché non mi era particolarmente simpatica la politica cinese: ero già andato a quelle di Seul. Adesso inoltre non mi piace più prendere gli aerei.
Quello che mi ha sorpreso in questo libro è il modo di presentare le manifestazioni e i protagonisti di vari sport. Non ti limiti a descrivere protagonisti solo del calcio o del ciclismo.
Per tutto questo devo ringraziare pubblicamente la Gazzetta, perché un giornalista è quello che gli lasciano essere. Mi hanno insegnato un mestiere e mi hanno lasciato la libertà di scrivere come piaceva a me. Facevo la gavetta vera, facevo il correttore di bozze, ma potevo benissimo occuparmi di pallanuoto e pugilato durante l’inverno. Ti insegnavano un po’ tutto. La Gazzetta dello Sport si occupava di tutti gli sport, e quindi ho fatto di tutto, perfino i mondiali di pallavolo quando l’Italia arrivava quindicesima. Finita la stagione ciclistica, c’era sempre bisogno di fare qualcosa di diverso, e questo aiuta: non ti sembra di essere estraneo a quello che scrivi.
La maturità classica e poi subito la Gazzetta.
Avrei voluto fare il medico, poi mi sono accorto che mi faceva ribrezzo il sangue degli altri, allora ho pensato di fare l’insegnante di lettere. Il liceo Manzoni di Milano all’epoca aveva un accordo con la Gazzetta: ogni maturità gli segnalava i due più bravi in italiano. A seconda delle possibilità il giornale li prendeva come ragazzi di bottega, e se erano bravi sarebbero diventati giornalisti, un po’ gli stagisti di oggi. Quindi mi arrivò l’offerta di andare lì, anche se non ero molto sportivo, e dopo sei mesi ero già iscritto all’albo; caso raro, perché di solito ci vuole almeno un anno e mezzo. Avvenne perché un loro collaboratore cadde dalla moto e la Gazzetta si ritrovò con uno in meno a due mesi dal giro. L’alternativa era: o prenderne uno bravo e pagarlo caro, o provare a buttare dentro uno di noi, che se anche fosse mancato dalla redazione non se ne sarebbe accorto nessuno. E mi buttarono dentro.
Il problema era che le bici da corsa le avevo viste solo nelle vetrine, per cui mi portarono alla Coppa Bernocchi per farmi capire qualcosa di ciclismo, e mi dissero di andare da Carlesi, che in quell’occasione avrebbe potuto vincere e invece arrivò quarto o quinto, e mi dissero di sentire un po’ se c’era molta delusione. Ero vestito benissimo, arrivai davanti a lui con un taccuino in mano e gli dissi: «Scusi, Carlesi…», e lui rispose: «Ma vaffanculo, ti sembra il momento di chiedermi un autografo?». Aveva ragione, perché non mi aveva neanche mai visto. Lì entrò in gioco l’autista della Gazzetta, alto sei metri e largo due, che fece irruzione nel suo albergo come un tornado e lo insultò in ogni modo. Io ero lì dietro e mi sentivo una spia. Insomma, alla fine non sapeva più cosa raccontarmi e mi diede l’intervista più lunga della sua vita.
Era un giro che partiva da San Marino fino a Firenze, c’era anche lo Stelvio. Io ero il più giovane in assoluto, e ho capito alcune cose: la prima è che chi scrive sul giornale scrive per gli altri, e io ero molto contento perché pensavo: “Adesso scrivo un pezzo e domani lo leggono”. Ho scoperto l’Italia andando in posti che altrimenti non avrei mai visto, e poi ho scoperto che il ciclismo è particolarmente ricco di umanità, perché bene o male la fatica la fanno tutti. Mi ricordo che feci una gran figura al quagliodromo vicino al lago di Iseo, perché pensavo: “Se all’ippodromo corrono i cavalli, qui correranno le quaglie”, e quando lo chiesi mi risposero: «No, gli spariamo!».
Eddy Merckx.
Bè, era una forza della natura. Io ammiro Gimondi perché al suo posto avrei smesso, corri e corri sapendo che tanto poi ti viene messa sempre la ruota davanti. Era un campione pazzesco, andava dappertutto, aveva il gusto dell’impresa, lo chiamavano cannibale. Un giorno gli ho chiesto: «Ma cosa te ne frega di vincere anche il circuito di Peretola?», e lui mi disse: «Guarda chi è che ha il nome più grosso sul cartellone: sono io. La gente paga per vedermi, e paga per vedere anche il mio impegno». Per lui lo sport era vincere.
Una cosa che mi ha sorpreso molto nel tuo libro è vedere la differenza di trattamento che hai avuto con Milan, Inter e Juve. Di queste tre squadre chi ti ha dato più emozione a livello mondiale?
A livello emotivo mi è piaciuta molto la vittoria del Milan a Wembley nel ’63. Con l’Inter, se parliamo del triplete non ne parlo neanche, perché se c’è di mezzo Mourinho non è sport per me, anche se sta migliorando perché ha fatto pace con tutti quelli che ha trattato a pesci in faccia. Durante le vittorie europee della Juve non c’ero, ero in Messico; c’ero in quella vinta con l’Ajax, ma non mi ha entusiasmato molto. È difficile che io mi emozioni molto durante una partita di calcio.
Ti emoziona di più il ciclismo?
Certe volte sì, mi ha emozionato molto, però rappresenta anche una specie di freno a mano. Se ne sono viste di imprese. Il primo Armstrong ad esempio era affascinante, poi, dopo un anno, un mese o dieci giorni vieni a sapere che era drogato. Questo è il problema vero. Io all’inizio, nel ’65, sapevo esattamente cosa prendessero i corridori, anche perché me lo dicevano, e non mi sembrava grave. Primo non lo facevano tutti i giorni, ma solo per le imprese particolarmente dure, e secondo, erano le stesse anfetamine che vedevo prendere anche ai miei compagni di liceo per il ripasso dei tre anni. Non mi sembrava così grave che dei ciclisti prendessero una pastiglia o due per fare le tappe molto dure. Coppi diceva che non sono due pillole a fare di un asino un purosangue, mentre le cose che hanno inventato dopo, soprattutto l’Epo, possono far avvicinare un asino a un purosangue che non ha preso niente. Ti migliora la prestazione di un quindici percento, rischi anche la pelle: quanti corridori si sono visti per una stagione sola? Queste cose sono uscite molto allo scoperto con Pantani a Campiglio, buttato fuori dal giro; lì ho battuto il record di messaggi ricevuti da parte di lettori: erano educati ma anche severi. Il succo era: «Adesso come la mettiamo, visto che tu ci hai insegnato a voler bene a Pantani?»
Me lo chiedevo anch’io, e ho anche pensato di smettere, però ho poi cercato di capire dove potevo aver sbagliato. La giustizia non sportiva i colpi migliori li fa con le intercettazioni telefoniche o con le analisi: noi non abbiamo la possibilità di farlo. Io privatamente posso pensare quello che voglio, ma senza prove non posso scriverlo sul giornale: senza prove tutti sono innocenti. Questo valeva anche per Armstrong, anche se ultimamente era diventato odioso. I suoi primi due anni furono esemplari come forza d’esempio: durante il tour passavi davanti agli ospedali infantili con i bambini che facevano la chemio, e avevano i lenzuolini con scritto ‘grazie Lance’ e ti veniva un po’ da piangere, e anche se all’apparenza sembrava un americano un po’ bullo capivi che ci era passato, e dava molta speranza a chi stava lottando. Era una storia bellissima secondo me, fino a che non è successo quel che è successo: i controlli li passava perché qualcuno avvertiva. Se avessero avvertito anche Pantani avrebbe vinto quel giro e non sarebbe morto, però non l’hanno fatto. Pantani ha scritto gli ultimi messaggi come ‘capo del gruppo‘ quando invece, del gruppo, quasi nessuno gli voleva bene, e questo perché li aveva umiliati. Ho avuto la sensazione che lui si fosse scavato metaforicamente la fossa a Oropa, quando gli è saltata la catena a meno di otto chilometri; ne aveva davanti sessanta e li ha ripresi tutti, li ha distaccati tutti. Secondo me lì ha in qualche esagerato: poteva stare più tranquillo, il giro lo vinceva comunque.
Cosa ti ha lasciato Marco, più rabbia o rammarico?
Mi ha lasciato molto rimpianto: come corridore mi piaceva molto. Intanto era diverso, parlava anche una lingua diversa. Quella frase che si citano sempre, «Vado veloce per alleviare la mia agonia», l’aveva detta a me al telefono, non l’avevo sentita da qualcun altro che poteva averla inventata. Aveva un modo di esprimersi molto profondo anche se a scuola era andato poco e malvolentieri. Poi era testardo: quando ha attaccato e poi si è ritirato non lo aveva neanche detto ai compagni di strada. Era diverso perché andava solo in salita, era tantissimo che non si vedeva uno così. E poi io guardavo molto gli effetti sulla gente, e lui aveva un effetto veramente euforizzante, su gente dagli otto ai novant’anni.
C’è stato un momento, nel ’98, in cui c’era mezza Italia ferma che aspettava lui, come era successo con Tomba nello sci, quando a vederlo non gli davi un soldo. L’ho paragonato a tante cose e nessuna di queste era un atleta: ad un postino, ad un uccello preistorico, a un bambino che rubava le bici, a un bonsai, a una biglia. Ma quando era in bici era diverso. Non era di quelli che ogni due minuti guarda l’orologio durante l’intervista: ci teneva a spiegarsi. Sono convinto che, se non fosse morto Pezzi, la carriera di Marco avrebbe avuto un’altra svolta. Dopo Campiglio ho provato molte volte a chiamarlo: non ha mai risposto, e alla fine l’ho lasciato stare perché ho pensato che poi ognuno risolve come i vuole i propri guai. Gimondi mi disse che non ascoltava neanche lui. Quindi è chiaro che, se ti trovi solo e quelli che hai non sono propriamente amici, rischi: rischi di perdere il senso delle proporzioni. Poi una persona di cui si parla molto poco è la ragazza danese, Christina, che credo fosse un elemento molto equilibratore nella sua vita, e magari anche lì, se non se ne fosse andata… Se, se, se… Troppi se.
Giro d’Italia – Tour de France: due corse diverse, due emozioni diverse; si sviluppano a maggio e a luglio, due cose opposte.
Allora, quest’anno non seguirò il Giro, ma seguirò il mio trentatreesimo Tour. Ogni tanto gli appassionati mi chiedono: «Ma lei fa sempre e solo il Tour?». Allora io rispondo che il Tour è in luglio, ed è l’unico mese in cui non si sovrappone con il campionato, la Champions eccetera. Non si possono seguire calcio e ciclismo contemporaneamente: i turni vanno a sbattere. Quindi mi tengo il Tour, ed è l’unica corsa che seguo.
Il Tour è una corsa più violenta, anche per il clima. Trovo che il percorso del Giro sia molto più bello, l’Italia ha delle variabili di percorso che la Francia non ha, tanto è vero che ultimamente si passava anche in Svizzera. Ma il cartellone del Tour è superiore a quello del Giro, quasi tutti lo preferiscono. Il Giro è una bellissima corsa, ma il Tour ha in più l’apparato intorno. Se vai da uno sportivo che ha partecipato ad entrambi, ti dice che vincendo una tappa al Tour sei a posto per la vita. Per essere bravi bisogna anche farsi vedere all’estero, lì: questo è ciò che ho sempre rimproverato a Saronni, limitarsi al Giro. Il corridore vero, come del resto Gimondi, nasce fuori d’Italia. Se uno pensa ‘Coppi vince’ o ‘Bartali vince’ gli viene in mente il Tour.
Non gioco più, me ne vado: gregari e campioni, coppe e bidoni. Perché i lettori e gli appassionati di sport dovrebbero leggerlo?
Non c’è nessun motivo valido per prenderlo, a meno che non si abbia un buco valido in biblioteca, o un briciolo di fiducia in me.
Giallo su giallo: ci saranno occasioni per altri libri di questo genere?
Quello era il primo, ed è quello che mi è venuto meglio. Ero in uno stato d’animo di beata incoscienza, non ci ho pensato troppo ed è venuto bene. Ha un seguito, ed è Ischia. Ma il punto è, Ischia ha un seguito? Mi sono messo nei guai: l’ultima pagina di Ischia fa pensare che loro vadano a vivere assieme, in questo paese sperduto con ottocento abitanti, di una bruttezza mortale. Ecco, se loro vanno a vivere lì io dovrei andare a vivere una ventina di giorni lì, e mi piacerebbe, il problema è il tempo. Mi piacerebbe farne un terzo, e poi far morire qualcuno, così non ho più il problema di doverlo continuare. Non lo so, penso comunque di finirla con le antologie come questa; mi fa piacere, per carità, ma chiaramente i romanzi li sento un po’ più miei.
Che spazio c’è tra il raccontare le emozioni tra due tempi così distanti, come è stata la differenza tra i mondiali dell’82 e quelli del 2006?
Do una risposta tecnica: ai mondiali dell’82 Brera fece una pagina il giorno dopo, ma in diretta ai mondiali del 2006, con l’Italia che vince ai rigori, ho scritto 72 righe, che sono abbastanza poche. Questo perché? C’era Lippi che faceva la gioia della difesa, un gioco di squadra per cui si frammentava. In quegli spazi è difficile far alzare un aquilone. A Napoli c’è un detto molto simpatico: l’acqua è poca e la papera non galleggia. Ero più disposto ad entusiasmarmi per un altro tipo di spettacolo.
Ormai un calciatore, perché chiaramente rappresenta uno sport a parte, privilegiato, è una via di mezzo tra il divo di Sanremo e il calciatore in sé. Molto più spesso prevale il divismo. Sono contento, comunque, che ogni tanto scrivano stronzate sui loro profili Facebook, perché fanno delle gran figure da fessi da soli, senza dover dare la colpa ai giornalisti, ed è già una rivincita.
C’è un allenatore che ti ricorda Bonafè?
Tanti, tantissimi, a cominciare da Rocco, Scopigno, Bianchi, e Ancelotti, con cui andrei a cena anche domani senza parlare di calcio: è uno di quelli che non si montano la testa e sono quelli che preferisco. Un altro è Hidalgo, allenatore della Francia nel 1982, che giocava con quattro numeri dieci a centrocampo. Resto convinto che l’Italia, un quindici percento della vittoria sulla Germania lo dovesse alla Francia, perché avevano fatto anche loro supplementari e rigori, una partita cattivissima, e comunque tra aerei e tutto erano tornati all’albergo alle cinque di mattina. Come allenatore vorrei ricordare anche Zoff, perché è di quelli silenziosi si tende a dimenticare cosa han fatto o cosa han detto, e secondo me è stato l’unico nel mondo dello sport a rispondere a tono a Berlusconi, dimettendosi sì, ma dicendo che non sopportava che gli venisse dato dell’indegno da lui, e scendo me fece bene. Berlusconi aveva torto in quell’occasione, perché si era dimenticato che in quella partita Zidane era stato uno dei più insignificanti in campo.
1982, silenzio stampa per la Nazionale.
Non fece male alla Nazionale. Comunque, la cosa fu generata da un pezzettino sul Giorno che cercava di fare un po’ di ironia: dicendo che i giocatori non vedevano le proprie mogli da quaranta giorni, si chiedevano chi tra Cabrini e Rossi, che condividevano la stanza per dormire, avrebbe fatto la muchacha. Non era una cosa di grande finezza, ma si è scritto anche di peggio. Loro lo hanno interpretato come l’ennesimo episodio persecutorio di una stampa che voleva dare fastidio. Io non ne ho patito molto, a loro credo abbia portato bene, e la cosa divertente è che ha portato a parlare tutti i giorni anche Zoff, che quando giocava aveva bisogno della tenaglia per dire qualcosa. Lui era un cavaliere dello sport, secondo me: quando vedi qualcuno che viene applaudito anche negli stadi degli avversari Il più recente è stato Maldini, vuol dire che ha qualcosa di speciale… In Italia purtroppo avviene raramente: qui si fischia l’inno nazionale degli altri anche nelle amichevoli. Ci sono abitudini brutte che una volta non c’erano.
Quando si parla di calcio si tende molto a parlare al maschile. Nella rassegna letteraria Libri in Movimento è stato presentato un libro intitolato Giocare con le tette, a cura di Milena Bartolini. Cosa ne pensi del calcio femminile?
Penso che stia venendo fuori bene, anche se non è al livello di altre nazioni con più mezzi e più pubblico, come Stati Uniti e Germania. So che a Brescia c’è una squadra molto forte, ma non ho avuto occasione di vederla. Non ci trovo niente di male, non ne faccio dell’umorismo come alcuni dirigenti del calcio hanno fatto: per me chi ha voglia di giocare a calcio ci gioca. Credo che ci voglia un po’ di tempo, e che serva un po’ una giocatrice ‘faro’ per far avanzare il movimento, perché i giornali oramai hanno bisogno di un personaggio, possibilmente vincente, e in questo momento non vedo una calciatrice che possa fare da faro alle altre.
Tra le squadre che hai visto in Nazionale in questi anni, qual è quella che ti ha entusiasmato per la bellezza, per la poetica, per il tipo di gioco di calcio?
Attualmente è troppo facile dire l’Atalanta, però è anche giusto. Negli altri anni mi piaceva il Pescara di Galeone. Mi impedisco il tifo per squadre di fascia alta, e in genere mi riservo delle simpatie per squadre in fascia bassa, che siano abbastanza povere o comunque poco ricche economicamente, e che giochino un calcio coraggioso. Direi che il prototipo di questi ultimi vent’anni è il Chievo di Del Neri, il primo Chievo che viene in Serie A. Poi, innegabilmente, il Barcellona prima che arrivassero Suarez e Neymar, quello con Messi e altri dieci, diciamo, e con Guardiola in panchina. Era abbastanza impressionante: se uno non ha giocato a calcio è un gioco noioso da vedere, ma se uno ha giocato sa quanta attenzione ci vuole per fare venticinque passaggi di fila su piede, prima di imbucare inaspettatamente. Era un calcio curioso, che si poteva definire al tempo stesso molto geometrico e molto poetico, e comunque basato più sulla tecnica che sulla forza. Siccome penso che negli ultimi quarant’anni, tra palestra e pesi, ci si sia basati solo sulla forza, direi queste. All’estero ho visto poche cose, ma direi la grande Ungheria che nei mondiali del ’54 perse una sola partita su cinquantadue. Il Cagliari di Riva, anche per motivi di sangue, era una squadra forte e lui era un bel giocatore.
Se uno ha visto delle tappe di ciclismo avrà notato che corrono a settanta all’ora in discesa e, quando cadono, quando si rompono una costola o qualcos’altro, la prima cosa che cercano di fare è ripartire, dopo trenta secondi dalla caduta. Ecco, io continuerò a preferire questi, anche fossero gli ultimi del gruppo, piuttosto che i calciatori che se li sfiori si buttano a terra per dodici metri fingendo di morire, quando in realtà non hanno niente. Non è vero che imbrogliare l’arbitro fa parte del gioco: è sempre un imbroglio, è un simulazione, quindi io li considero degli imbroglioni, non solo dei simulatori, e trovo che sia molto più dignitosa la caduta serie di un ciclista, che quella frivola di un calciatore. Anche il Napoli di Maradona e la Juve di Platini, ma questa è una cosa legata a loro due, ovviamente, anche se c’erano grandissimi giocatori.
Un pronostico sul trentatreesimo Tour, visto che ci andrai, e un giudizio anche sulla carriera di Gavazzi e Vianelli.
Gavazzi è stato un ottimo professionista, direi da otto. Vianelli sembrava dovesse spaccare il mondo; non so se per timidezza o cosa non lo ha fatto, però mi ha regalato uno dei momenti più grotteschi che abbia mai visto su un rettilineo d’arrivo: l’arrivo di una coppa Agostoni. Erano lui e Santambrogio, tutti e due in maglia Molteni, e chiaramente Albani, dall’ammiraglia, ha detto che doveva vincere Vianelli, solo che Santambrogio tirava e Vianelli non si decideva ad uscirgli di ruota; allora Santambrogio, in meno di duecento metri dalla fine, si alza, prende la borraccia e comincia a bere, e Vianelli capisce e passa e vince. È stata una delle cose più giuste che abbia mai visto. Se vi capita andate a rivederla, perché ne vale la pena!
Pronostico sul Tour… spero che vinca Quintana, anche se continua a farmi arrabbiare. Tutto quello che è antimoderno io lo piglio. Altrimenti, in prospettiva, uno che mi sembra forte è Charles. Non mi chiedere degli Italiani perché al momento non si sa neanche chi lo fa, poi se lo fanno come l’anno scorso è meglio se stanno a casa.
Curi una rubrica, Mangia e bevi: sono curioso di questo passaggio dallo sport al cibo.
È assolutamente spiegabile. Nelle corse in genere si salta mezzogiorno; ci si potrebbe fermare a mangiare di corsa, ma poi, tra salite e discese, non si digerisce. I giornalisti di ciclismo si dividono in con la gastrite o no, e i primi li riconosci. Io mi diverto a seguire il Tour, ma si cambiano ventidue letti, ventidue cucine in ventidue giorni: è faticoso, insomma, quindi la sera si mangia e si beve anche un filo di più, e quelli con la gastrite mangiano sempre le stesse cose. Io ho sempre cercato di mangiare e bere quello che offrivano le località: non sono di quelli che chiedono la cotoletta alla Milanese a Foggia. Quindi mi sono fatto uno zoccolo involontario. Stando in giro, i primi anni, per duecento giorni ci si fa una cultura, che si tiene lì, fino a che non capita l’occasione di metterla a frutto. Nel mio caso è successo nel ’76; Veronelli faceva le schede dei ristoranti, cioè lui decideva ‘ristorante da Gianni una stella’, dando quattro indirizzi per regione, e a fare la scheda andavano i redattori, tra cui io. Raccoglievo la ricetta, facevo la storia. A lui piaceva come scrivevo e mi ha incoraggiato ad andare avanti. Per essere sincero mi ha anche offerto di andare a lavorare solo per lui, garantendomi il triplo di quello che prendevo, però nel ’77 erano anni difficili, io avevo ancora l’idea di un giornalismo utile, e l’idea di scrivere per sessant’anni solo di Nebbiolo non mi piaceva. Adesso sono disposto a scrivere, ma non solo quello. Mi piace scriverne, considero molto importante la tavola, fin dai tempi dei giri: non è solo un posto dove si mangia e si beve, ma un posto dove si fa tardi con gli amici, si gioca a carte, si comunica in qualche modo, e oggi la cosa più difficile è parlarsi. Avete visto mai quelle famiglie sedute in quattro al ristorante che stanno tutti a guardare il loro palmare? Ma neanche Antonioni con l’incomunicabilità di sarebbe sognato scene così! Quindi penso che la tavola sia un posto importante per comunicare, parlarsi.
Com’è arrivata la scelta di scrivere anche narrativa? Perché non è da tutti, e non è da tutti i giornalisti riuscirci così bene.
Per scrivere un libro ho aspettato di compiere sessant’anni. Ritenevo che l’Italia è piena di libri inutili scritti per il quaranta percento da giornalisti. Volevo aspettare di avere l’alibi anagrafico, tipo: «Vabbè, oramai è rincoglionito e va bene così». Avendolo Invece scritto con totale innocenza, gli editori erano molto contenti: avevo venduto quasi cinquantamila copie. Secondo me la scrittura va allenata, e va allenata su terreni diversi da quelli che si fanno quotidianamente. Quando ho pensato a cosa avrei voluto scrivere ho pensato a un giallo. Mi sono appoggiato al Tour perché, non avendo molto tempo, bisogna parlare di una situazione che si conosce molto bene. Ho cercato di farlo anche nel giornalismo: nasco in un quotidiano sportivo, vado all’informazione di un quotidiano del pomeriggio, vado in un settimanale dove resto sette anni, poi gira la voce che torno a fare sport e mi prende Costanzo all’Occhio, dopo aver fatto un colloquio di questo tipo: «Di che segno sei?» «Bilancia». «Benissimo». «Benissimo cosa?» «Vai, vai, finito». Sono stato lì un anno e mezzo e poi sono tornato a scrivere a Repubblica. Ho coperto quasi tutto, più di così non potevo, però tutto questo comporta dei cambi di scrittura: chiaramente la scrittura del settimanale è diversa da quella di un quotidiano, soprattutto per dimensione di cartelle.
Trascrizione ed editing a cura di Giulia Bertini
NOTA
[1] Andrea Gentile e Aurelio Pino