
«Natalino, ma che fai? Quanta uva hai mangiato?».
«Chi? Io? Ma io non ho mangiato niente, cosa stai dicendo?». Natalino si avvicina con il suo solito passo lento.
Un piccolo sorriso nasconde il movimento rapido della lingua, che allunga fino a toccare quel poco di succo misto a vinacce che gli si è rappreso sul labbro inferiore.
Si ferma un secondo, appoggiato al bastone. Ci guarda da dietro gli occhiali scuri e, con il braccio libero, usa la manica della vecchia giacca sgualcita per pulirsi bene la bocca appena umida. Sotto al portico, mio nonno e altri suoi amici assistono alla scena e se la ridono.
Natalino era il braccio destro di mio nonno. Sono coetanei e hanno appena passato gli ottanta. Ovunque fosse mio nonno, ogni cosa stesse facendo, Natalino era li con lui. Ci sono due foto che li ritraggono, mentre in un pomeriggio di febbraio tornano dalla potatura del vigneto. Le ho scattate io: una di lato e una da dietro.
Mio nonno guida il trattore con il paraorecchie calato fino quasi sugli occhi, con lo sguardo fisso in avanti e le mani sull’estremità del volante. Indossa una tunica nera che gli arriva fino alle ginocchia. Natalino sta dietro, su un carretto con le ruote di automobile; dei tubi arrugginiti formano una sorta di recinto dove è libero di muoversi.
Indossa il cappello da muratore, che gli arriva fino alle tempie, e la solita giacca di cotone con i pantaloni blu scuro. La cintura, che gli cinge il pancione e solleva l’orlo dei pantaloni fin quasi sotto le ascelle. La montatura degli occhiali in ferro, con le lenti fotosensibili, che celavano i suoi pensieri anche quando il sole era alto. Le scarpe, che si vedono solo nella foto da dietro.
Gliele ha regalate mia nonna, l’anno prima quando, per colpa dei sandali, si era preso una polmonite. Per i vestiti se la cavava da solo: man mano che la stagione si faceva più fredda, aumentava gli strati di magliette sotto la giacca.
Quando d’inverno non c’era niente da fare passavano giorni interi davanti al fuoco, in silenzio; e d’estate, nello stesso silenzio, stavano sotto al portico. Mi domandavo cosa facessero, se stessero aspettando qualcosa. Quando non li trovavi in un posto o nell’altro potevi star certo che erano sotto qualche pianta a mangiare.
L’uva era la frutta preferita da Natalino. Avevamo un filare di vigna dietro al fienile, che delimitava l’inizio della campagna persa a vista d’occhio. D’altro canto mio nonno ha sempre avuto il bisogno di mettere un confine visibile ai suoi spazi. Natalino, da metà agosto fino a settembre, passava gran parte dei pomeriggi dietro quel filare. Mi faceva morire dal ridere: era convinto che nessuno lo vedesse.
Da sotto il fil di ferro che reggeva i tralci, si vedevano le sue gambette e un bastone. Le foglie tremavano ritmicamente quando allungava la mano e si fermavano quando portava gli acini alla bocca. Come una pinza staccava i grappoli interi e li mangiava. Ogni tanto si fermava per qualche minuto, quando qualche insetto gli morsicava la lingua.
Non si lamentava nemmeno, aspettava semplicemente che gli passasse il dolore. Poi ricominciava.
Natalino era il secondo di sette fratelli. Abitava con uno dei fratelli minori, sua moglie e la figlia. Il padre era un uomo rude e violento, e gli altri fratelli si erano separati come le schegge si allontanano dopo un’esplosione. Nel vano tentativo di tenere uniti i frammenti della sua famiglia, ogni tanto si faceva accompagnare dalla nipote, che abitava al piano di sopra, nei più lontani e remoti confini della pianura padana pur di incontrare i fratelli.
La sera si sedeva sulla sedia di vimini in fondo alla sala da pranzo, rivolto verso la televisione, con un braccio appoggiato sul tavolo. Il fratello stava schiacciato sul divano, con le gambe sul tavolino e cambiava i canali a raffica. Dietro a loro, all’altro capo del tavolo, la cognata alzava e abbassava lo sguardo tenendo d’occhio la situazione mentre sferruzzava con la lana: «A farseli in casa, i maglioni», diceva sempre, «si risparmia e si sta più al caldo».
Alta, magra, aveva un casco di capelli grigioferro sempre pieno di bigodini.
La mattina Natalino si svegliava e la nipote gli serviva il caffè. Per qualche strano motivo, però non trovava mai lo zucchero.
Usciva di casa verso le otto e, andava dall’altra parte del paesino per buttare la spazzatura. Per fare cinquecento metri impiegava quaranta minuti. Poi tornava indietro. Circa a metà strada entrava nel nostro cancello anteriore, che era sempre aperto. La nostra cascina aveva sette ingressi. Lui sceglieva quello in cui non vedeva nessuno, così da passare inosservato e poter spiluccare da mangiare e bere un goccetto di vino che mia nonna gli lasciava in bella vista.
Un giorno la cognata ci venne a dire che non potevamo dargli da mangiare, che dovevamo stare attenti: aveva problemi di pressione e gli avevano dovuto cambiare le lenti degli occhiali per colpa del diabete.
Mia nonna, presa dal senso di colpa, nascose il vino. Natalino allora prese a scendere direttamente in cantina: cercava la damigiana con il vino meno buono e si serviva da solo.
D’altronde era lui che aiutava mio nonno a travasare: sapeva.
Una freddissima domenica di gennaio ero davanti al fuoco con mio nonno a sgranare la fuliggine dalle castagne. Lui è sempre stato uno di poche parole, uno che storce il naso se gli fai troppe domande: ha le sue teorie, ti espone una storia e tu devi dedurne il significato.
«Nonno, come fa Natalino ad avere sempre fame?».
«Secondo te perché uno ha fame?». Detestavo che mi rispondesse con un’altra domanda.
«Perché non ha mangiato?».
«Non solo. Tu non puoi immaginare cosa sia la fame, il lavoro duro. Quel povero cristo ha fatto una vita d’inferno.Non vedi che ha perso il naso, con tutta la polvere che ha respirato? La schiena non gli si piega nemmeno più dalla fatica».
«Cosa c’entra con la fame che ha adesso?».
«Sei ancora troppo giovane per capire. Quando uno soffre la fame vera, poi si mangerebbe una vita intera».
Mio nonno cambia sempre la versione delle storie che racconta, questo è il bello. Il significato è sempre quello, ma sposta gli avvenimenti, cambia i dettagli. Comanda sempre lui.
Natalino da giovane lavorava per quelle cooperative che andavano di cascina in cascina a trebbiare i cereali.
Trasportavano le trebbiatrici con i cavalli da un paese all’altro e, per mesi e mesi, Natalino viveva vicino a quelle macchine. I capi si fidavano di lui. Era a lui che spettava la conta degli ettolitri di frumento trebbiato. Sempre a lui spettava stare sotto la tramoggia da cui scendevano le granaglie, e alla sera era coperto di polvere. I fattori ormai lo conoscevano e gli affidavano il rancio da dividere con la squadra e le chiavi della baracca. Quante volte era rimasto a digiuno per gli altri!
Ma non voleva litigare: piuttosto restava senza mangiare.
Un giorno d’autunno, mentre girovagavo con la mia bicicletta, vidi Natalino che raccoglieva i cachi caduti a terra, sotto la pianta del nostro vicino. Doveva sporgersi per raccoglierne almeno un paio, e si chinava trattenendo il respiro, appoggiato al bastone; quando risaliva era tutto rosso in faccia e gli occhi parevano esplodergli da dietro gli occhiali. Si appoggiò al muretto che faceva da confine e in due morsi ne mangiò quattro. Poi lo vidi avvicinarsi alla pianta mentre cercava di colpire con il bastone i frutti penzolanti che piegavano i rami fino quasi a spezzarli.
Si allungò fino a sfiorarli, ma dopo un paio di tentativi a vuoto si incamminò lungo il sentiero che portava alla nostra fattoria. Io allora mollai la bici lì in mezzo alla strada e mi precipitai nel capannone degli attrezzi a prendere una scala. Poi gli andai incontro. Quando mi vide si fermò per capire che cosa stessi facendo. Appoggiai la scala all’albero e presi quattro bei cachi maturi, con la ragnatela nera disegnata alla base, e glieli porsi.
Natalino sollevò leggermente il cappello da muratore, in segno di ringraziamento, e li divorò senza nemmeno lisciarli con la manica. Poi fece per andarsene.
«Natalino, aspetta un secondo che te ne prendo degli altri».
Mi fece cenno di no: era a posto così. Giusto il tempo di girarmi e lui si era già incamminato.
Qualche giorno dopo non si era ancora fatto vivo. Venni a sapere che aveva avuto un malore.
Quella mattina l’avevano trovato a terra, in fin di vita. Fece qualche giorno di ospedale e poi ritornò a casa. Non riusciva più ad alzarsi dal letto e il diabete, giorno dopo giorno, gli consumava la vista.
Ormai erano un paio di mesi che non si faceva vivo e mio nonno, vigliacco, non andava a trovarlo. Gli intimavo di andare, lo supplicavo, non si muoveva.
Natalino morì la notte di San Silvestro, una settimana dopo il suo compleanno.
Sono sicuro che sia stata una liberazione per lui. A soffrire era abituato dalla nascita. Non poter più guardare nitidamente non era un problema. Ma l’immobilità era troppo.
Andai al funerale con mia nonna. Mio nonno non volle venire. Appena entrai in chiesa compresi il perché.
C’erano cinque persone di fronte all’altare: la nipote, il fratello, la cognata e due sconosciuti. Degli altri fratelli nemmeno l’ombra.
Resistetti poco più di venti minuti, il tempo di scoprire che all’anagrafe faceva Natale Glassa, poi tornai a casa. Natalino venne cremato. Non è dato sapere se fosse questa la sua volontà, ma di sicuro in quel modo nessuno doveva prendersi la briga di portare dei fiori sopra qualche fotografia.
Mio nonno era seduto di fronte al fuoco e giocava a schiacciare con la pinza del camino alcuni pezzi di carbone.
Gli rimasi lì vicino per qualche minuto. Poi mi disse:
«Hai visto che fine fanno i buoni? Tu che hai quelle strane manie di lavorare per gli altri, di aiutare gli altri».
Non dissi nulla. Presi il posto di Natalino accanto a lui e aspettai.