Ha lavato i piatti, le mani e i denti. Con i polpastrelli ha toccato i fiori: buchi neri senza più corolle. Sua madre ci ha messo le mani, grazie a lei la casa pullula di piante posticce. Esplode. Vomita ricettacoli di polvere e policromie sintetiche.
Ogni giorno Betta osserva il gatto nascondersi dietro le foglie e scomparire. La sera, dopo mangiato, apre la portafinestra che dà sul balcone. Si affaccia e spia il cielo che asfissia tra gli edifici.
Questa volta l’aria è tersa. Preme i palmi sul davanzale e getta uno sguardo nel cortile sottostante. Da un angolo, sotto la tettoia, proviene un baluginio: un tremore biancastro che spezza l’uniformità del selciato.
Betta spalanca la bocca e si sporge. C’è un uccello enorme, immobile, con le ali raccolte e il becco uncinato. Forse è un albatro. Accanto al rapace giace un mucchietto di visceri viola.
Si guarda intorno. Nessuna traccia di sangue nel cortile, neanche una piuma sospesa. Ha l’impressione che l’uccello le stia sorridendo, ma la sua attenzione è rivolta al grumo sanguinolento che lo affianca. A un tratto comincia ad ansimare, rientra in casa e chiude la portafinestra. A poco a poco il respiro rallenta nella penombra.
Si siede sul divano, afferra il telecomando e abbassa il volume. Verso mezzanotte, un peso le preme sullo stomaco e la sottrae al dormiveglia. Allora si solleva e spegne il televisore. Il silenzio gravido dei fiori la circonda. Prima o poi la seppellirà.
A luci spente attraversa l’ingresso invaso dalle piante di plastica e stoffa. Si rifugia in camera e accende l’abatjour incassata nel comodino degli anni Settanta. La madre dorme in posizione supina e russa. Ha il volto grigio e la bocca sdentata. Le mani giunte sulla pancia gonfia sembrano quelle dei morti.
Betta si spoglia. Nell’alone giallastro, proiettato sulla parete dall’abat-jour, vibrano le sagome di fiori sparsi: ombre nere sempre più fitte.
Dopo aver indossato il pigiama, si corica accanto alla madre. Allunga una mano e preme l’interruttore. Dalle fessure delle tapparelle abbassate filtra un tenue chiarore.
I profili degli oggetti e delle piante emergono, pulsando, nell’oscurità. Betta rivolge gli occhi spalancati al soffitto. Nel buio che la sovrasta scorge un barbaglio. Un riflesso acqueiforme si espande riverberando, mentre la madre risucchia l’aria tra le gengive e sibila. Il ritmo la ipnotizza fino a farla scivolare in un sonno che ha la forma del mare.
Al risveglio il posto accanto al suo è umido e vuoto. Dalla cucina giunge il tintinnio del cucchiaino dentro un bicchiere. Aspira l’aroma del caffè bruciato. Si morde il labbro e si alza dal letto. Si trascina verso la cucina. Ha in bocca il sapore del fegato crudo. Nell’ingresso, il vivaio artificiale ha l’aspetto di una piantagione preistorica in miniatura. Sul mobile un rampicante fuoriesce da un barattolo di latta, si riversa sul telefono e sui cassetti. Sfiora il pavimento. Dietro al vaso con i girasoli, gli occhi di Enea riflettono la luce scialba del mattino. Betta protende le dita e lo accarezza sul capo. Il gorgoglio delle fusa accelera rauco.
In cucina sua madre è seduta sul divano sommerso dai cuscini. Sorseggia il caffè dal bicchiere e le indica un vaso stracolmo sulla credenza.
«Ti piacciono?».
Betta annuisce e mette su l’acqua per il tè.
«Guarda che belli! Perché non dici niente? Sono speciali questi, sai?».
La ragazza fa dondolare il filtro del tè sopra la tazza vuota. «Sì, sì, mi piacciono. Mi piacciono».
«Ma se non vieni qua e non guardi, come fai a dirlo?».
«Sto preparando il tè, mamma».
«Soltanto un momento, vieni a vedere».
Si avvicina. Sul palato asciutto il sentore di ruggine persiste.
Sopra la mensola, accanto al divano, c’è una fila di piccoli vasi dai quali esondano primule, margherite e viole. Betta si passa la lingua sulle microfessure dentali, si gratta il naso e alza la voce: «Ieri c’era qualcosa di strano nel cortile. Sembrava un gabbiano gigantesco». Anche l’interno del labbro ha un gusto metallico. Forse le gengive stanno sanguinando.
Sua madre si stringe nelle spalle. «La gente ha cose strane in casa. Cose vive e pericolose. Lo sai, no, che ogni tanto trovano un leone da qualche parte. Oppure un serpente».
Betta tace, allontanandosi. Spegne il fornello. Il borbottio dell’acqua bollente cessa all’istante.
Mentre sorseggia il tè, osserva la madre piegata su un brandello di stoffa. Sta ritagliando e modellando fiori per applicarli ai cuscini. Anche i cuscini sono tanti e ovunque: sopra le sedie, sul divano e sulle ceste di paglia ammassate negli angoli.
Dopo aver lavato le tazze, va in bagno. Enea la segue e si piazza sotto la finestra illuminata dal sole.
Di fronte allo specchio, Betta apre la bocca. Passati i trent’anni i denti ingialliscono, invecchiando prima del collo e degli occhi. Virano al grigio, come un corpo che muore.
Le gengive non sanguinano, per fortuna, ma nel fondo della gola vibra un’ombra scura, viola come le interiora di un pesce.
Scossa da un conato, Betta raggiunge il water. Ha i brividi. Il sudore le ghiaccia le tempie. Dallo stomaco risale con violenza un guizzo viscido e molle. A contatto con l’acqua produce un tonfo secco e breve.
Tenendosi la fronte, si sporge per guardare. Nel pozzetto del water galleggia una sostanza bruna. Somiglia al frammento di un rene o di un altro organo depurante.
Non si sente male, anzi. Si rialza e tira la catenella dell’acqua con uno strattone. Ride, leggera come una bambina sulla spiaggia. Nel fragore del gorgo il corpo estraneo scompare sbiancando. Enea non si è mosso. È un gatto-lucertola pietrificato dal sole.
Una volta preparato il bagno, Betta toglie il pigiama e s’infila nella vasca. Canticchia una canzone degli anni Trenta. Il saporaccio è scomparso, lasciando un residuo amaro. Ascolta la madre mentre traffica in camera e biascica insulti rivolti ai vicini.
S’immerge nella schiuma che sa di menta. Nel silenzio compresso dall’acqua, coglie il vuoto della morte. Per alcuni l’acqua è vita. Per lei nulla è più spaventoso di un mondo sommerso. Meglio l’aria. L’aria che manca, l’aria attraversata dagli uccelli voraci.
Sollevandosi di botto fa un respiro profondo. Il silenzio torna a essere un ronzio confuso.
Si sciacqua e si asciuga strofinandosi con energia. Torna in camera. Enea è acciambellato sopra le camicette della madre. Decine di camicette gettate alla rinfusa sul letto.
«Esci?».
«Certo, oggi c’è il banco con i fiori».
«Non è tutti i giorni?».
La donna afferra una gonna dall’armadio e senza guardarla mormora: «Questo no, questo è quello con i fiori speciali».
Betta inizia a vestirsi. «Ma compri anche da magiare?».
«Certo che compro da mangiare. Qui il cibo non è mai mancato».
«Vuoi che venga con te?».
«Ti vedo pallida, stattene a casa. Ci metterò un po’».
Betta annuisce. Esce dalla stanza e va in cucina per leggere. Un groviglio foderato di verde avvolge i braccioli del divano. Fino a due giorni prima le ante dello scolapiatti cadevano a pezzi. Il truciolato sfarinava sulle cerniere arrugginite. Adesso al posto degli sportelli ci sono due rettangoli quadrettati di plastica verde. Nell’angolo di ogni quadrato è appuntata una gerbera di stoffa.
Betta s’immerge nella lettura. La madre spunta in cucina per annunciarle che sta uscendo.
Rimasta sola, si avvicina alla portafinestra. Accosta i palmi al vetro incrostato di sporcizia. La polvere appiccicosa offusca la visuale. Al di là del vetro, affiora la tettoia sbrecciata che ombreggia il cortile. Sulla cornice esterna si dispone una fila di piccioni immobili. Quieti. Giganteschi. Saranno delle cornacchie che non riesce a mettere a fuoco.
Poggia una mano sul vetro e spolvera. Il lerciume ha una consistenza vischiosa. È giallo di fumo, sole e cellule morte. Non si è sbagliata. Gli uccelli sono piccioni grandi come falchi pellegrini. Mostrano una compostezza primitiva. Granitica. Non ha paura, solo il timore che si ha di fronte a cose molto antiche. Vicine al vuoto che precede la creazione.
La polvere brucia il naso e solletica la gola. Betta fa pressione sulla maniglia, apre la portafinestra ed esce. L’aria calda la investe in un’ondata.
Gli uccelli sulla tettoia sono scomparsi. Il cielo è vuoto e azzurro. Betta esplora il cortile con gli occhi. Dove giaceva il mucchietto di visceri, spicca una macchia scura.
Rientrata, sprofonda sul divano e aspetta che la raggiunga un desiderio qualsiasi. Alla fine riprende il libro che stava leggendo.
Una volta aveva un ragazzo, poi lui l’aveva lasciata. Da allora Betta aspetta e osserva. Non fa nient’altro dalla mattina alla sera. Quando sua madre creperà sommersa dai fiori dovrà solo aspettare più a lungo, e non le importa sapere che cosa.
Verso l’una e mezza suona il citofono. Va ad aprire e ascolta i passi pesanti della madre lungo le scale. La donna ha il respiro corto e impreca a bassa voce.
Tutti i giorni a pranzo mangiano pastina con l’olio. Le minestre sono il cibo ideale per i vecchi e i reclusi. Un ex terrorista diceva che danno conforto.
Lei non ha paura del mondo esterno, solo che dentro è più semplice, nonostante i fiori.
Da piccola Betta pensava che le piante si animassero durante la notte. Che uccidessero le persone con il profumo, o risucchiandole. Ed era per questo che gli uomini morivano nel sonno, come era successo a suo padre. I fiori prima regalavano e poi toglievano l’ossigeno. Ciò che vive, una volta o l’altra, è destinato a riprendersi quel che ha dato.
Con il tempo la fobia si è attenuata. Le è piaciuto ricevere i fiori dopo la laurea.
Ora la madre riposa, Enea è in camera con lei. Betta continua a leggere e le si forma un nodo in gola. Deglutendo avverte di nuovo il sapore ferroso. Spinge la lingua contro il palato e un’ondata di nausea la stordisce, dandole il capogiro.
Betta sospira e si preme il petto con la mano. Prova ad alzarsi dal divano e allungare le dita in cerca di un appiglio. Vacilla e avanza sbandando. La stanza le vortica intorno e la bocca si riempie di saliva dolciastra. Il nodo si sta espandendo. Cresce a dismisura, spingendo contro la laringe. È certa stia per svenire e soffocare, quando a un tratto il sapore scompare e la stanza torna immobile. Lo stomaco è libero e la gola sgombra. Dalla porta finestra socchiusa le giunge il frinire delle cicale. Ogni cosa è inerme nella luce.
Betta lancia un’occhiata alla tettoia al di là della portafinestra. Nessuna forma di vita aleggia nei dintorni. Mentre poggia il naso sul vetro, una morbida massa le sfiora una caviglia.
Enea ha la coda bassa, le riserva un’espressione severa. La ragazza si china per accarezzarlo. Fissandola, il gatto emette un gemito prolungato e fugge via. Il pelo gli si solleva irto come dopo una zuffa.
Betta lo segue nell’ingresso. Enea miagola ancora, produce un suono che ricorda il sobbollire della terra prima di un sisma.
Il gatto salta sopra il mobile e si aggira smarrito fra i vasi di latta con i girasoli e le gerbere. Lei gli si avvicina. L’animale le soffia e si struscia con insistenza sulla lattina con i girasoli. Socchiudendo gli occhi, preme il muso contro le corolle recise. Le pareti del vaso fremono. Si rilassano e si contraggono seguendo il ritmo di una pulsazione. Betta strofina le palpebre. Enea spinge il capo contro l’alluminio smaltato e ne asseconda il palpito.
Colta da un impulso, la ragazza distende una mano e la immerge nel vaso. Il gatto ha smesso di soffiare e resta immobile accanto ai fiori.
Nel fondo del vaso una sostanza viscida sfugge al tocco. Batte come un cuore minuscolo e ha la consistenza del fegato di un coniglio.
Betta riesce a fare presa, ad afferrare la frattaglia e a estrarla dal vaso. Nel pugno serra un frammento d’organo identico a quello espulso con il vomito. Sollevandolo nella penombra, percepisce un dolore improvviso al basso ventre. Un morso le avvinghia l’utero. Il sangue affluisce caldo a ridosso delle cosce.
Stringendo i denti, accosta la sostanza alle labbra. Emana un odore umido di radici e carne. Pulsa, estendendosi fra le dita serrate. È sul punto di scoppiare.
Betta rilassa la mandibola. Tenendosi la pancia con la mano libera, si caccia il frammento in bocca. Sentendosi asfissiare ripensa a un’esperienza di sesso orale. Il primo dei suoi ragazzi fuori di testa glielo aveva spinto fin nella gola.
Sta per soffocare, ma il frammento si restringe e smette di colpo di pulsare. Assume le dimensioni di una capsula. Ingoiandolo, il dolore cessa di lacerarle il ventre.
Trae un sospiro di sollievo. Enea scende dal mobile e avanza con indifferenza verso il tinello. Dalla camera si diffondono le note di una vecchia melodia. Betta tende l’orecchio. Sono anni che non possiedono un lettore cd. L’ultimo s’incantava e ripeteva all’infinito la strofa di una canzone di Sergio Endrigo. La madre l’ascoltava per ore, china sulle applicazioni che stava confezionando. Nel giardino di Giovanni non si contano gli anni.
Forse un vicino ha acceso lo stereo. La voce non sembra filtrare dal muro. È nitida, non lontana nello spazio, ma nel tempo.
Ma l’amore no, l’amore mio non può disperdersi nel vento con le rose…
Betta riconosce il pezzo che cantava immersa nell’acqua della vasca. Si muove verso la camera. La musica si fa via via più chiara e struggente.
La porta è socchiusa, la spinge verso l’interno e apre. La luce che arriva da fuori è accecante.
Schermandosi la fronte con la mano, si avvicina al letto. Al centro, sommersa dai fiori comprati al mattino, la madre giace con il ventre squartato. Lo stupore le dischiude le labbra. Gli occhi sono fondi di bottiglia nel sole. Sopra di lei, la creatura dal becco giallo strappa brandelli di carne stillante.
Ma l’amore no, l’amore mio non può dissolversi nell’oro dei capelli…
Betta ha un conato improvviso. Si piega sul corpo della madre e rigurgita l’ennesimo brandello che palpita e si gonfia. È identico al mucchietto di visceri viola.
Ansimando si porta una mano alla fronte, deterge il sudore e afferra la sostanza con un gesto repentino.
L’uccello smette di artigliare e nutrirsi. La osserva e inclina il capo sul collo. Il respiro di Betta torna regolare. La ragazza si solleva e gli porge la mano con le interiora. Il rapace tende il collo e affonda il becco nel palmo. Betta si stringe nelle spalle. L’uncino le sfiora la pelle madida, sfilando via rapido l’offerta.
Lei non guarda. Quando la mano è vuota, torna a contemplare la scena.
La creatura sta spiccando il volo. Regge nel becco il dono di Betta. Senza voltarsi esce con le ali spiegate dalla finestra aperta. Lo stridio che ne accompagna l’uscita si mescola ai versi biascicati della vecchia canzone.
Ma l’amore no, l’amore mio non può…
© 2021 Laura Scaramozzino