George Moore – Elemosina

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1919

Mentre cercavo un penny, cominciò a piovere. L’uomo cieco aprì un pacchetto e vidi che conteneva un piccolo impermeabile di tela incerata. Ma i vari cappotti che indossavo mi impedivano di trovare le monete, perciò pensai fosse meglio soprassedere alla mia opera di carità per quel giorno e mi allontanai velocemente.
«Chiedere l’elemosina per otto o nove ore al giorno è la sua sorte terrena,» dissi, e camminando verso il fiume, affacciandomi alla balaustra, mi chiesi se l’uomo riconoscesse l’andatura dei passanti – se riconoscesse la mia andatura – e la associasse a un penny. A che scopo saper distinguere i diversi modi di camminare? Se li distingueva, avrebbe avuto aspettative e delusioni. Un cane, però, avrebbe reso la vita comprensibile. E io immaginai un sodalizio, un misto di silenzio e cecità, e la gioia che avrebbe illuminato le tenebre quando il cane, eccitato, fosse saltato sulle ginocchia del cieco. Immaginai la gioia di zampe e di piedi caldi, e l’improvviso colpetto del muso. Un cane sarebbe stato un legame che avrebbe unito il cieco all’amicizia di una vita. Ora, perché questo ometto non vedente, con il viso pallido quanto una pianta che non vede mai il sole, non ha un cane? Un cane è il legame naturale e l’unico legame che possa unire il mendicante cieco all’amicizia di una vita.
Voltandomi, vidi che si stava togliendo lo striminzito impermeabile, poiché la pioggia era cessata. Ma di lì a poche settimane, sarebbe piovuto tutti i giorni e forti raffiche di vento sarebbero spirate dal fiume. “Sopravvivrà a un altro inverno?” mi chiesi. “Folate taglienti spazzeranno la via; lo troveranno insinuandosi nella camicia strappata e negli umili pantaloni grigi, nel gilè lacero, nella giacca nera, nel cappotto logoro – l’indumento di cui qualcun altro si è disfatto. Forse è nato cieco o forse lo è diventato, ma in ogni caso non ci vede più da tanti anni, e se si ostina a vivere dovrà superare molti inverni in quella stradina, perché non è vecchio. Quale istinto lo costringe a sopportare la sua buia vita? Ha paura di uccidersi? E questa paura nasce da preoccupazioni fisiche o religiose? Paura dell’inferno? Di certo, nessun’altra ragione lo spingerebbe a rassegnarsi alla sua esistenza.”
Nella mia intolleranza per tutte le vite a parte la mia, pensai di poter soppesare il valore della Grande Beffa e mi chiesi con rabbia perché continuasse a vivere. Mi domandai perché io lo stessi aiutando a vivere. Sarebbe stato meglio se si fosse gettato subito nel fiume. E questa che mi parlava era la ragione, e mi diceva che l’atto più misericordioso che potessi fare sarebbe stato aiutarlo a scavalcare la balaustra. Ma dietro la ragione risiede l’istinto e, obbedendo a un impulso che non seppi definire o riconoscere, andai dal cieco e gli misi in mano del danaro. La monetina gli scivolò tra le dita; erano così fredde che non riuscirono a trattenerla, e io dovetti raccoglierla da terra.
«Grazie, signore. Può dirmi che ore sono, signore?»
Dunque, questa insulsa domanda era la mia ricompensa. Sia lui che io volevamo sapere che ora fosse. Gli chiesi perché gli interessasse e lui mi rispose che, quella sera, un amico sarebbe venuto a prenderlo. Nel domandarmi chi mai potesse essere questo amico, e nella speranza che me lo dicesse, lo interrogai circa la sua scatola di matite, augurandomi che le vendesse. Mi rispose che stava facendo affari.
«I ragazzi del circondario sono una seccatura,» disse, «ma il poliziotto di ronda è un amico mio. Lui li tiene d’occhio e fa in modo che contino le matite che prendono. L’altro giorno mi hanno derubato, e lui ha dato loro una tale strigliata che non penso che proveranno ancora a rubarle. Vede, signore, i soldi che guadagno con le matite li tengo nella tasca sinistra, mentre i soldi che mi regalano li tengo nella tasca destra. In questo modo, sono sicuro i miei calcoli sono giusti quando mi metto a fare i conti la sera.»
Chissà dove, chissà in quale solitaria stanza se ne sta seduto a fare i conti. Ma non volendo sembrare indiscreto, cambiai argomento.
«Immagino che lei conosca alcuni dei passanti.»
«Sì, ne conosco parecchi. C’è un signore che mi dà un penny ogni giorno, ma è andato all’estero, ho sentito, e sei pence alla settimana sono una perdita considerevole.»
Dal momento che gli avevo dato un penny al giorno per tutta l’estate, ne dedussi che parlava di me. E i miei sei pence alla settimana equivalevano a una cena, forse due! Era necessario soltanto che interrompessi la mia carità per dargli sollievo. Non sarebbe sopravvissuto senza le mie offerte, e se un altro dei suoi benefattori avesse fatto lo stesso, il mondo si sarebbe liberato di una vita in cui io non scorgevo alcun valore.
Così giudichiamo il mondo quando ci affidiamo alla ragione, ma l’istinto è testardo come un bambino e implora come un bambino, e il mio istinto mi supplicava di soccorrere questo pover’uomo, di dargli un penny tutti i giorni, di scoprire quale fosse la sua condizione e di fermarmi a scambiare qualche parola con lui ogni volta che gli offrivo la moneta. Per tutta l’estate avevo obbedito al mio istinto, ma ora era intervenuta la ragione, la ragione in rivolta, e per lungo tempo evitai, o così sembrò, di attraversare la stradina dove l’uomo cieco se ne stava per otto o nove ore, lieto di ricevere l’elemosina senza mai chiederla.
Per diversi mesi, credo che mi dimenticai di lui. Il pensiero mi sovveniva soltanto quando ero a casa, o quando mi trovavo dall’altra parte della città, e talvolta mi scoprivo a inventare piccole scuse per non passare per il vicolo. Le nostre motivazioni sono vaghe, complesse e numerose e non si è mai sicuri del perché si fa una cosa; se dovessi dire che quell’inverno non diedi più alcun penny al cieco perché pensavo fosse meglio privarlo dei suoi mezzi di sussistenza e costringerlo ad abbandonare la vita, piuttosto che aiutarlo a restare vivo e soffrire, direi di certo un bugia, ma l’idea era presente nella mia mente e la coscienza mi rimordeva quando percorrevo la viuzza. Provavo rimorso nel passargli davanti in tutta fretta, troppo egoista per sbottonarmi il cappotto, giacché tutte le volte che mi capitava di incontrarlo pioveva o tirava vento forte, e in ogni occasione mi allontanavo veloce, sforzandomi di capire perché l’uomo restasse aggrappato a quella misera esistenza. Me ne andavo rapido per i fatti miei, la testa piena di chiacchiere su San Simeone Stilita, e tentavo di convincermi che egli vedeva Dio lontano alla fine del cielo, le Sue mani immortali piene di immortali ricompense; la ragione ciarlava su premi di cori celesti, ma l’istinto mi diceva che il cieco in quella via di pietra non conosceva tali miracolose consolazioni.
Col passare dell’inverno, i venti si fecero più aspri, la mia volontà di evitare la stradina più evidente, finché un giorno mi soffermai a pensare e mi chiesi perché la stessi evitando.
C’era un vago tepore nell’aria; udii distintamente il mio cuore che mi parlava e disse: “Va’ dal cieco, che importanza hanno dieci minuti di ritardo? Non sei più stato felice da quando ti sei astenuto dal fare carità e il mendicante cieco avverte l’inizio del nuovo anno.”
«Vede, signore, oltre alle matite ho aggiunto anche qualche bottone da camicia e qualche chiodo. Non so se venderanno, ma se non ci provi non lo saprai mai.»
Poi mi disse che fu il vaiolo a rovinargli gli occhi e aveva solo diciotto anni all’epoca.
«Deve aver sofferto molto quando le dissero che la vista la stava abbandonando.»
«Sì, signore, ebbi la gobba per sei settimane.»
«Che intende dire?»
«Ero piegato in due dal dolore. Rimasi seduto con la testa tra le mani per sei settimane.»
«E dopo?»
«Non ci pensai più. A che serviva?»
«Sì, ma deve essere difficile non pensarci, seduto qui tutto solo.»
«Non bisogna mai arrendersi. Altrimenti saremmo sopraffatti dalla disperazione. Ho degli amici e di sera faccio molto esercizio.»
«Cosa fa di sera?»
«Guido un tagliafieno in una stalla.»
«Ed è soddisfatto?»
«Non penso, signore, che un uomo più felice di me passi per questa strada una volta al mese.»
Mi disse che il figlioletto veniva a prenderlo di sera.
«Lei è sposato?»
«Sì, signore, ho quattro figli. Partiranno per le vacanze la prossima settimana.»
«E dove andranno?»
«Al mare. Gli farà bene; l’aria di mare sarà un vero toccasana per loro.»
«E quando torneranno le racconteranno tutto?»
«Sì.»
«E lei non va mai in vacanza?»
«Lo scorso anno sono partito con un poliziotto. Un signore che passa di qua, uno dei miei amici, ha pagato quattro scellini per me. Abbiamo consumato un’ottima cena in un pub per un scellino e poi abbiamo fatto una passeggiata.»
«E quest’anno partirà con il poliziotto?»
«Spero di sì, un mio amico mi ha regalato mezza corona in vista della partenza.»
«Le darò io il resto.»
«Grazie, signore.»

Un’aria dolce spirava da sud e il mio cuore si ricolmò di un istinto altrettanto delicato e gentile. Mi diressi verso un gruppo di alberi. Le foglie nuove cominciavano a spuntare sui rami più alti. Sedevo dove gli uccelli stavano costruendo i loro nidi, e ben presto mi parve di comprendere la vita come mai prima d’allora. «Siamo qui,» dissi «al solo scopo di imparare cosa sia l’esistenza e il mendicante cieco mi ha insegnato molto, una cosa che non avrei potuto apprendere dai libri, una verità più profonda di quelle contenute in qualsiasi volume»… E poi, smisi di pensare, poiché pensare è una follia quando un dolce vento spira da sud e un istinto altrettanto delicato e gentile ricolma il cuore.

Traduzione di Benedetta Tavani

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