William Yeats – I Far Darrig del Donegal – di Letitia McClintock

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Pat Diver, lo stagnaro ambulante, era avvezzo a una vita di vagabondaggi, e a insoliti rifugi; aveva condiviso le coperte con i mendicanti in baracche fumose; si era sdraiato vicino all’alambicco nei recessi più nascosti fra i monti dell’Innishowen, dove si distillava illegalmente il whisky; aveva persino dormito sulla nuda erica, o dentro ai fossi, con la volta del cielo come unico tetto sopra di sé; ciò nonostante le sue avventure notturne erano tranquille e comuni, se paragonate a quella notte speciale.

Durante il giorno che l’aveva preceduta, Pat aveva riparato tutti i bricchi e le padelle di Molville e Greencastle, e si stava dirigendo verso Culdaff, quando il buio lo aveva raggiunto lungo una solitaria strada di montagna. Pat bussò a una porta dopo l’altra per chiedere un alloggio per la notte, facendo risuonare le monetine che teneva in tasca. Ma dovunque fu rifiutato.
Dov’era andata a finire la tanto celebrata ospitalità dell’Innishowen, che sapeva non essergli mai venuta meno prima di allora? Era inutile essere in grado di pagare con gente che sembrava così scortese. Con questi pensieri in testa, Pat si diresse verso una luce appena più lontana, e bussò alla porta di un’altra casupola. Un vecchio e una vecchia erano seduti ai due lati del focolare.
«Per cortesia, signore, potreste darmi un alloggio per la notte?», chiese Pat rispettosamente.
«Voi la sapete raccontare una storia?», rispose il vecchio.
«Bé, signore, no, non è che io sia tanto bravo a raccontare», rispose lo stagnaro, perplesso.
«Allora potete anche andarvene, perché solo chi sa raccontare una storia può entrare qui».
Questa risposta fu data in tono così deciso che Pat non tentò neppure di ripetere la sua richiesta, ma si volse, riluttante, per riprendere il suo stanco cammino.
«Una storia, certo», mormorò. «Favole delle nonnine per divertire i lattanti!».
Mentre riprendeva il proprio fagotto con gli attrezzi del mestiere, notò un fienile dietro la casupola e, alla luce della luna che stava sorgendo, vi si diresse. Era un fienile pulito e spazioso, con un mucchio di paglia ammonticchiato in un angolo: ecco un rifugio da non disprezzare. Così Pat scivolò sotto la paglia e ben presto si addormentò.
Non doveva aver dormito molto quando fu destato da un rumore di passi e, spiando con cautela attraverso una fessura del suo giaciglio di paglia, vide quattro uomini altissimi che entravano nel fienile, trascinando un corpo, che lanciarono rudemente sul pavimento. Poi accesero un fuoco in mezzo al fienile, e legarono il cadavere per i piedi con una grande corda, appendendolo a una trave del soffitto. Uno di loro cominciò poi a farlo girare lentamente davanti al fuoco.
«Forza», disse, rivolto a un tipo gigantesco, il più alto dei quattro. «Sono stanco; adesso tocca a te».
«In fede mia, io non voglio farlo girare», rispose il gigante. «Sotto la paglia c’è Pat Diver. Perché non lo fa lui?».
Con urla terribili i quattro chiamarono il povero Pat che, non vedendo via di scampo, ritenne che il consiglio più saggio fosse venire avanti, così come gli veniva richiesto.
«Su, Pat», dicevano, «giralo tu il cadavere. Ma se lo fai bruciare, verrai appeso e arrostito al suo posto».
A Pat si rizzarono i capelli in testa, e un sudor freddo gli colò dalla fronte, ma non ci fu nulla da fare se non eseguire lo spaventoso compito. Vedendolo così impegnato, i quattro giganti se ne andarono. Ben presto, però, le fiamme si alzarono così alte da bruciare la corda, e il cadavere cadde con un grande tonfo sul fuoco, spargendo intorno la cenere e le braci, e provocando il doloroso grido di angoscia dello sfortunato cuoco, che si precipitò fuori dal fienile e fuggì via in cerca di salvezza.
Pat continuò a correre finché fu quasi sul punto di stramazzare per la fatica, quando, vedendo un canale coperto di erba alta e fitta, pensò di nascondersi lì dentro fino al mattino. Ma era lì da pochi minuti quando udì di nuovo il pesante rumore di passi, e i quattro uomini comparvero con il loro carico, che deposero sull’orlo del canale.
«Sono stanco», disse uno al gigante; «adesso tocca a te portarlo per un po’».
«In fede mia, non voglio portarlo io», rispose questi, «ma c’è Pat Diver nel canale. Perché non viene fuori e non lo fa lui?».
«Vieni fuori, Pat, vieni fuori», ruggirono gli uomini tutti insieme, e Pat, quasi morto di paura, uscì fuori.
Barcollò sotto il peso del cadavere finché raggiunse l’abbazia di Kiltown, un rudere ricoperto d’edera, dove i gufi brunastri ululavano nella notte, e i morti dimenticati riposavano lungo le mura sotto densi, spessi intrichi di arbusti spinosi e di erbacce. Non si seppelliva più in quel luogo, ma gli altissimi compagni di Pat si volsero al cimitero abbandonato e iniziarono a scavare una fossa. Pat, vedendoli così impegnati, pensò che avrebbe forse potuto tentare ancora di fuggire, e salì su un albero di biancospino lungo il recinto, sperando di nascondersi fra i rami.
«Sono stanco», disse l’uomo che scavava la fossa; «dài, prendi tu la vanga», rivolgendosi al gigante, «tocca a te».
«In fede mia, non tocca a me», rispose questi, come prima. «C’è Pat Diver sull’albero. Perché non scende giù e non lo fa lui?».
Pat scese e prese la vanga, ma proprio in quel momento i galli delle fattorie e delle casupole intorno all’abbazia iniziarono a cantare, e gli uomini si guardarono l’un l’altro.
«Dobbiamo andare», dissero «ed è un bene per te, Pat Diver, che i galli abbiano cantato, perché, se non l’avessero fatto, ti avremmo gettato in quella fossa legato insieme al cadavere».
Passarono due mesi e Pat aveva vagato in lungo e in largo per il Donegal, quando gli capitò di arrivare a Raphoe durante una fiera. Fra la folla che riempiva il Raphoe Diamond Pat si imbatté d’improvviso nel gigante.
«Pat Diver, come va?», disse questi, piegandosi a scrutare il viso dello stagnaro.
«Scusatemi, signore. Non ho il piacere di conoscervi», balbettò Pat.
«Non mi riconosci, Pat?». Poi sussurrò: «Quando tornerai a Innishowen, avrai una storia da raccontare!».

(Traduzione di Michele Curatolo)

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