Sergio Volterrani – Diciassette

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Il luogo dista dal paese quel tanto che basta a impedire ai bambini di recarvisi da soli a giocare. Gli adulti preferiscono non passare di lì: per raggiungere l’altro versante della vallata utilizzano il ponte che attraversa il fiume, più a sud, vicino alla segheria.

Il luogo, in sé, non è brutto: un prato, circondato da alti cipressi, in una conca naturale posta ai piedi di una breve discesa.

È chiamato “il Lazzaretto”, perché  durante la grande epidemia che colpì la zona in un lontano passato, lì venivano confinati  gli ammalati di peste e, sempre lì, venivano sepolti.

     Quasi al centro del prato sorge una modesta cappella, oramai cadente, affiancata dai resti di un basso campanile, sulla cui cima diroccata una solitaria campana si erge in precario equilibrio.

All’interno della cappella, sulla parete meno esposta agli assalti del tempo, affiora un rustico dipinto miniato dalla mano un po’ ingenua di un artista ignoto: in primo piano, una figura ritratta di spalle, incappucciata e coperta da un lugubre saio nero, stringe una falce; ai suoi piedi, un gruppo indistinto di persone emaciate, con abiti ridotti a brandelli, è inginocchiato in atteggiamento supplice; sullo sfondo, nubi grigiastre offuscano un pallido sole.

A lato del dipinto campeggia il disegno di una meridiana, sotto la quale una scritta ammonisce: Ricordati sempre di questo giorno, il tempo che passò non fa ritorno.

La gente del paese evita questo luogo, forse per rispetto, forse per una paura alimentata dalle voci che, da qualche tempo, circolano tra i valligiani. Si allude a inquietanti presenze che talvolta si manifestano nei pressi della cappella.

Il primo a farne cenno è stato Bartolo, il pastore che vive in una casupola arroccata sul monte, da cui si domina l’intera vallata. Bartolo scende in paese di tanto in tanto, per vendere i suoi formaggi e procurarsi ciò di cui ha bisogno per vivere lassù; e, nell’occasione, trascorre buona parte del tempo all’osteria, dove di frequente gli capita di alzare un po’ troppo il gomito. Per questo il suo racconto non è stato preso sul serio dagli astanti, impegnati a organizzare un onorato funerale per l’anziano e stimato farmacista del paese.

Per un po’ di tempo tutto è stato tranquillo. Poi è avvenuta la morte, tanto inaspettata quanto improvvisa, di Gina, la figlia del macellaio. E ancora una volta Bartolo, giunto in paese, ha affermato di aver avvistato misteriose figure aggirarsi nell’ombra della cappella. Naturalmente non è stato creduto.

Finché  Tonio il carpentiere, di ritorno dal lavoro alla segheria, è passato sovrappensiero lungo il sentiero che corre accanto al Lazzaretto: giunto ansante e trafelato in paese, ha raccontato la stessa cosa.
Quella notte, la vedova Borlin è passata a miglior vita.

     È quasi sera. Al Lazzaretto tutto appare quieto. Ma, spingendo lo sguardo fino all’angolo della cappella, dove i frondosi cipressi proiettano la loro ombra, si possono scorgere tre sagome. Sono figure vestite di nero, tre donne, vecchie, magre, quasi rinsecchite, inginocchiate a terra, i volti nascosti dagli ampi scialli scuri.

Stanno giocando a dadi, lentamente. Lanciano a turno, controllano il punteggio e ricominciano, in attesa che si formi la funesta sequenza: sei, sei, cinque.

Ad un tratto, un corvo si alza in volo, gracchiando. Il gioco si ferma. Una nube grigiastra nasconde il pallido sole del tramonto. Una folata di vento agita le fronde dei cipressi.

Le tre vecchie rialzano la testa, si guardano, annuiscono all’unisono, poi abbassano il capo, mentre lenti e lugubri rintocchi ripetono l’infausta sequenza appena formata: sei, poi altri sei, e infine cinque.
È la conferma che un’altra anima se n’è andata.

     Scende la sera, nelle case si accendono le luci, le donne si affaccendano attorno ai deschi, le porte si chiudono lasciando fuori la notte incombente mentre le famiglie si riuniscono per consumare insieme la cena.

In un’altra casa, in quella casa, la luce tremula delle candele accompagna il gemito doloroso dei suoi occupanti, riuniti in preghiera.

Una pallida falce di luna illumina il Lazzaretto, rischiarando di luce quasi spettrale l’angolo della cappella dove prima sedevano le tre vecchie: se ne sono andate verso un altro luogo. Un nuovo paese dove ricominciare il funesto gioco.

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Sergio Volterrani, nato e vissuto a Brescia, ha lavorato come informatico presso importanti aziende del settore. Ora in pensione, si è trasferito a Torbole Casaglia, dove vive con la moglie Gabriella. Nel tempo libero si è occupato di teatro amatoriale come attore, entrando a far parte di diverse compagnie: “G.A.V”. 1975/80, “I Senzavergogna” 1984/86, “La Vela” 1992/94. Ha partecipato a vari laboratori teatrali, condotti rispettivamente da Vittorio Pedrali, Giangiacomo Colli, Maddalena Ischiale. Ha studiato fonetica e dizione con Patrizia Volpe. Nel 1996 ha contribuito alla formazione di una compagnia giovanile di teatro amatoriale, per la quale, come autore/sceneggiatore e regista, ha scritto e diretto il musical “Senzanome News” (1997), le commedie brillanti “Pensione Miralago” (1998) e “Obalon” (1999) e il recital “Francesco 2000” (2000). Condivide con la moglie la passione per il canto corale: entrambi fanno parte di un Coro Polifonico impegnato in opere di solidarietà e concerti di beneficenza. E’ stato allievo di Heiko Caimi durante i laboratori di scrittura creativa (2012).

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