Quando Nidal si svegliò, il silenzio era la cosa più assordante.
Era disteso su una lastra di cemento crepato, madida di sangue rappreso e urina, e l’odore dolciastro della morte gli risaliva le narici come un serpente. Provò a muoversi, ma la testa gli scoppiava. Ogni battito del cuore gli martellava nel cranio, un tamburo sordo tra le rovine. Aveva freddo, benché il sole già picchiasse attraverso l’aria gialla della polvere sospesa.
Il primo pensiero fu: “Dove sono?”. Il secondo: “Dove sono loro?”.
Il terzo non fu un pensiero, ma un’immagine: lei, con la fronte aperta come un frutto, e il piccolo Samir, il corpo molle ancora tra le sue braccia, la guancia contro il seno che aveva cercato mille volte, e che non avrebbe più risposto.
Li trovò a meno di un metro da lui. Le mosche stavano banchettando su di loro.
Lei si chiamava Mariam. I suoi occhi, quando la colpirono, erano spalancati. Non di terrore, no. Di sfida. Aveva gridato: «Non toccate mio figlio!», e lui aveva cercato di saltare addosso al soldato, ma qualcosa – il calcio del fucile, forse, o una scheggia impazzita – gli aveva spento la luce. Per qualche ora, o forse un giorno. Non sapeva.
Il bambino… il piccolo Rami non aveva ancora imparato a parlare per bene. Diceva “Baba” e rideva quando lo sollevava in aria. Aveva un ciuffo di capelli ribelli che Mariam accarezzava ogni mattina. Ora, sul cranio piccolo e delicato, c’era un’ammaccatura come fatta da una zampa d’acciaio. E sangue rappreso. Tanto.
Attorno, i corpi degli altri. Donne, uomini, un vecchio con il bastone, un ragazzo col viso sfigurato, bambini. E, poco oltre, si alzava una colonna nera e fitta dove un tempo c’era l’ospedale Al-Shifa. Il più grande. L’ultimo. I missili avevano sbriciolato anche quello.
*
Ora Nidal cammina tra le rovine come un’ombra. Non ha più nome, non ha più casa né famiglia. Le ossa gli si possono contare sotto la pelle tesa, lo stomaco è uno straccio secco che piange aria, le labbra screpolate si spaccano se prova a parlare. Ma a chi dovrebbe rivolgersi?
Le ONG sono sparite. I convogli umanitari bloccati. Le ambulanze non esistono più: i medici sono morti, o fuggiti, o impazziti. Un tempo c’erano l’UNRWA, la Croce Rossa, qualche giornalista straniero. Ora ci sono solo droni in cielo, cani randagi e la fame. Quella non si stanca mai.
Ricorda ancora quando ha provato a seppellirli. Con le mani, come poteva. Ma la terra era secca, e i bulldozer avevano frantumato ogni cosa. Aveva raccolto una coperta bruciacchiata e li aveva coperti. Poi aveva urlato. Un grido che non era voce, ma pietra. Che non era dolore, ma storia.
Anche adesso urla, senza emettere un suono. Urla con le mani protese verso il cielo che non risponde.
*
Quando arriva il buio, siede ancora lì, tra le macerie. Gli occhi fissi su un punto indefinito, dove il cielo si è acceso come un’inferriata incandescente e poi è tornato cenere.
“Ora so,” pensò. “So che anche nel ’42, nel ’44, lo sapevano. I treni li avevano visti. L’odore lo avevano sentito. Ma voltavano la testa. Dicevano: ‘Non è affar nostro.’ E adesso, eccoci qui. La stessa cosa, e il mondo ancora una volta sta a guardare. Per il mondo le nostre vite non sono nulla. Nulla. E tanto domani non saremo qui a reclamare. Perché di noi non resterà più nessuno”.
Un tempo leggeva i giornali. Si fidava delle parole come di un filo tra le dita, erano una mappa per non perdersi. Ora sa che le parole sono soltanto carta. Bruciano bene. Si usano per coprire l’orrore. Per chiamare il genocidio con altri nomi. “Operazione”, “sicurezza”, “lotta al terrorismo”. E tutto da parte di chi avrebbe ben dovuto comprendere la lezione della Storia. Proprio da chi l’aveva subita. E che ora voleva fare lo stesso a loro. Chiamandoli terroristi.
Chi è il terrorista?, si chiede. Samir? Mariam? Io?
Nel silenzio della notte, sente un ronzio lontano: un drone. Sorvegliano. Registrano. Non intervengono. Come chi filma una fossa comune e poi si volta per scrivere un editoriale sull’equilibrio geopolitico.
*
Al mattino, si rialza. Cammina ancora tra le mosche e il lezzo dei cadaveri che lo circondano da ogni parte, alcuni semisepolti dalle macerie, altri interamente esposti al sole implacabile. Tra litri e litri si sangue essiccato.
Sopravvive, sì, ma solo per testimoniare. È diventato il testimone di un popolo a cui hanno spento la voce, a cui hanno sottratto anche il diritto al lutto. Ogni suo passo è un’accusa, ogni suo sguardo un interrogativo puntato contro chi guarda e poi scrolla le spalle.
Perché il mondo guarda. Altroché se guarda. E, come allora, non fa nulla. Aspetta che sia finita. Che siano tutti morti, così da poter piangere senza rischio, con parole che suoneranno bene, nelle conferenze. Ma sarà tardi. È già tardi.
La storia non si ripete: continua. E Nidal – senza più moglie, senza figlio, senza pane né medicina – è la prova vivente che non abbiamo imparato nulla. Che non impareremo mai. Fino a quando non saremo tutti annientati.