Il mio nome era Saleh.
Lo era, un tempo, quando ancora mia madre mi chiamava dal cortile impolverato della casa a Nuseirat, quando mio fratello mi gettava un sasso alle spalle per avvertirmi che era ora di cena. Lo era quando i nomi avevano un peso, una lingua, un odore di pane e di fumo.
Ora, qui in Italia, il mio nome è solo un suono straniero, un inciampo nei registri, una parentesi appena tollerata. Nessuno lo pronuncia più, tranne io stesso, sottovoce, nei sogni.
Vissi ogni giorno dell’ultimo massacro con il cuore cucito agli schermi. Vidi mia zia seppellita nel cemento, vidi i bambini carbonizzati sulle barelle, vidi il cielo di Gaza diventare una fornace. Ma tutto questo lo vissi da solo. Non mi restava più nessuno da chiamare, nessun numero da comporre. Nessuno della mia famiglia era stato lasciato vivo.
Solo immagini, notizie, le notti bianche. E l’impotenza, quella furia silenziosa che ti spezza i denti.
Quando mi giunse notizia della piazza del 7 giugno, non avvertii sollievo. Sentii un bruciore. Sapevo che qualcosa di profondo era già stato tradito.
Mi dissi: non è per noi. Non per me, che ho visto il volto di mio padre scomparire sotto le macerie e quello di mia sorella diventare irriconoscibile nella lista dei morti. Non per me, che ogni volta che apro bocca in questo paese rischio di essere zittito, corretto, accusato di antisemitismo.
Quella piazza l’hanno svuotata come si svuota una latrina: con cautela, senza rumore, per non disturbare i salotti buoni. Hanno tolto Ovadia e Albanese – voci che pungono, che scuotono – perché troppo vere, troppo vive, troppo ostinate. Troppo palestinesi, in fondo, anche se non lo sono per niente.
Hanno tenuto invece le sagome addomesticate, le statue parlanti, le maschere del centrosinistra in cerca di redenzione. Fassino, Quartapelle… Figuri che, mentre i cecchini sparavano sui civili in fuga da Rafah, discutevano se usare la parola “massacro” o “operazione”. Figure che annusano il vento e parlano solo se il potere glielo concede.
E io avrei dovuto andarci? Avrei dovuto stare sotto quelle bandiere annacquate, fianco a fianco con chi si lava la coscienza col sapone delle mezze parole?
No.
Io restai a casa.
Mi sedetti sul pavimento, senza tappeto, e mi morsi le mani. Accesi il notiziario. Una donna parlava di “pace”. Un uomo di “equilibrio”. Un altro di “dialogo tra le parti”.
Le parti.
Come se ci fossero due eserciti.
Come se i bambini potessero essere colpevoli.
E poi sentii quel nome, Rula Jebreal. Un nome che resiste, che sanguina, che sa. La sua sola presenza aveva fatto tremare Fiano, quel simulacro di coscienza, che fugge la verità come i topi dalla luce. «Mamma mia», aveva detto. Mamma mia. Come davanti a un piatto di pasta andato a male. Non davanti a 15.000 bambini morti assassinati. Non davanti all’assenza totale di giustizia. Ma, come diceva quell’altro sionista assatanato, i neonati palestinesi lanciavano razzi. Dalla culla.
Quel giorno capii che la vera piazza era altrove. Era in quelle mani rifiutate, nelle parole tagliate via. Era nel comunicato dell’Associazione dei Palestinesi in Italia, che si era tirata fuori, con dignità, da quella ridicola farsa. Non per disprezzo. Per amore. Perché l’amore, quello vero, non si inginocchia davanti alla convenienza.
La mia rabbia non ha megafoni. Non ha microfoni, né palchi. Ma ha memoria. E la memoria è l’unica terra che mi è rimasta.
Io sono Saleh.
E anche se qui nessuno mi guarda negli occhi, quando parlo, anche se le mie lacrime non fanno notizia, resto in piedi.
Non c’è pace, né piazza, che possa costruirsi su un silenzio imposto dall’indifferenza, o da chi ci vuole tutti morti: un problema in meno.
Io non vi perdono la vostra ipocrisia. E non vi ringrazio del vostro compromesso.
Gaza brucia ancora.
Ma voi sfilate in giacca e cravatta, con gli slogan approvati, appropriati, perbenino. E non vi fate neanche schifo.
Io sfilo altrove. Con i miei morti.
Loro, almeno, non mentono.