Da piccola
mangiavo il fango.
Sapeva di sabbia e torba
e sfrenato rimescolio
e di qualcosa per cui non sono mai riuscita
a trovare un nome.
Più tardi mi son data
a osservare la luna
sempre strizzando gli occhi
alla finestra,
convinta che la libertà
fosse aerea
finché mi sono figurata che forse
era la luna a osservare il fango
bramando la densa melma
della gravità,
il fremito promiscuo
del tocco,
la licenza di fare,
rompere, rifare,
è così che ho disvelato
il vecchio compito dei poeti –
fare da messaggeri
tra luna e fango –
e mi son messa a imparare le molte
lingue della terra
che non hanno nulla a che fare con le nazioni
e gli atlanti
ma hanno tutto a che fare
con i modi
delle forfecchie,
il sacro cammino delle radici
e la grande brama della vita di trattenere
ed essere trattenuta,
e l’irrefrenabile passione umana
per la nominazione:
palta, pantano, concime, humus, mota, limo
muffa, terriccio, suolo, fanghiglia, argilla, merda,
mannu, matope, barro,
tin, ni, luto, mud …
Tutti hanno il loro posto, ho scoperto,
nella democrazia delle lingue,
nessuno è superiore,
nessuno intraducibile,
tutti a ricordarci
il sacro inno
del letame
di cui siamo fatti,
tranne quando le nubi di giugno si ribaltano
sul mar d’Arabia
e una città che dorme
si sveglia per un dolore così speciale
che solo per un istante
potrebbe non avere altro nome
se non quello
in cui il suono incontra l’odore
e una poltiglia materica
incontra una liscia umidità lunare:
mitti.
Solo questo. Nulla è meglio di questo.
Da Love Without a Story (Bloodaxe Books, novembre 2020)
Traduzione di Andrea Sirotti