Zax – Dada, la morte e io

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DADA

A mia sorella Dada è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso inverno, a 75 anni, quattro più di me.
Nessuna meraviglia, da sempre fumava non come, ma più di un turco. Credo che fosse arrivata a tre pacchetti al giorno. Philip Morris, ultimamente.
Come il fratello di mia moglie, morto a 75 anni con la stessa diagnosi e con lo stesso numero di pacchetti, ma di Marlboro Rosse. Con mia sorella, mio cognato aveva un’altra cosa in comune: una voluta solitudine, anche se non disdegnavano di tanto in tanto vedere i parenti più stretti. Per il resto, diversi come l’acqua dal fuoco.
Avevano detto che non avrebbe visto la Pasqua; è agosto, è ancora viva. Però credo che in questa notte di mezza estate mia sorella morirà.
Questa mattina si è svegliata solo per dire di essersi fatta la pipì addosso, e ha avuto il piacere di captare che la sua cagnolina yorkshire Lola, tanto amata, era vicino a lei; poi ha richiuso gli occhi, continuando a dormire.
Non potendo più portare fuori la cagnolina da settimane, ha dovuto rinunciare alla sua compagnia e affidarla a un nostro fratello.
Adesso è distesa sul suo letto, cannule che escono dal lenzuolo. Sopra la testiera blu c’è una grande riproduzione dei due famosi cherubini di Raffaello, dipinti in basso nel più grande quadro che raffigura la Madonna Sistina. Sono appoggiati a qualcosa che non si vede e il loro sguardo va in alto a destra, forse a guardare Santa Barbara che è alla sinistra della Madonna. Sono indifferenti a ciò che accade sotto di loro.
Nella parete alla destra del suo letto sono infissi ben dodici soli grandi e piccoli, di tutte le fogge e colori, e solo due mezze lune; in quella di sinistra sono appesi quadri che incorniciano lavori di cucito colorati, l’alfabeto e fiori.
Tanto colore. Si vede che in questa stanza non ha mai vissuto un uomo.
Non si è più svegliata. È venuto l’infermiere delle cure palliative domiciliari, le ha messo un catetere e l’ha collegata a una pompa che le somministra piccole dosi di morfina e altra roba, perché non soffra.
Sono le 22:30 e lei continua a dormire e a respirare con le cannette di ossigeno nel naso. Un respiro che sembra inarrestabile, solo con la bocca, inspirazione, espirazione, ogni due secondi. Di tanto in tanto emette piccoli rantoli, ma mi dicono essere solo catarro, non sono ancora “quei” rantoli.
Quando mia sorella ha saputo di avere il cancro, la cosa cui teneva di più era quella di morire al più presto possibile.
Non voleva soffrire.
Parlava di continuo di suicidio, di buttarsi giù dal balcone o sotto un autobus. Poi voleva ricorrere al suicidio assistito e si è informata su internet per le pratiche da fare. Diceva che si sarebbe fatta accompagnare in taxi in Svizzera, in una di quelle cliniche dove ti ammazzano a pagamento, anche a costo di spendere diecimila euro.
In concreto non ha fatto niente e ha atteso che “lui”, come lo chiamava, finisse il proprio viaggio all’interno del suo corpo.
Personalmente non l’ho mai vista disperarsi, né gli altri parenti che l’assistono. Solo mia moglie mi ha detto di averla vista piangere, soltanto una volta, abbracciata a lei.
Ha firmato tanto di dichiarazione con la quale rifiutava qualsiasi “cura” per il cancro e qualsiasi accanimento terapeutico. Niente ospedale. Voleva morire a casa sua in pace, con i suoi capelli e senza vomitare in giro. Accettava solo i trattamenti palliativi antidolore, anche se in effetti c’è da dire che il suo cancro con lei è stato particolarmente gentile, perché non le ha intaccato parti del corpo che inducono a forti sofferenze.
Non ha sofferto fisicamente. Solo verso la fine l’ha tormentata una brutta piaga da decubito sul fondoschiena, perché se ne stava sempre seduta sulla sua poltrona. Non voleva mai andare a dormire, forse per la paura di non svegliarsi più.
Non aveva tutti i torti.
Diventava sempre più debole, ma godeva di buon appetito; aveva il diabete, ma ormai i medici le facevano fare tutto quello che voleva, come fumarsi dieci sigarette di fila o mangiare dolci in gran quantità. Tanto…
All’età di settantadue anni ho imparato a non aver più pudore e, quando mi toccava, la portavo in bagno, le toglievo le mutande e gliele rimettevo dopo che aveva fatto i suoi bisogni. A mia sorella! Roba da non credere.
Per camminare si teneva a uno di noi e procedeva a passettini; pochi giorni fa l’ho anche portata dal parrucchiere, ha fatto i gradini, sempre sorretta. Le poche volte che usciva bisognava portarsi dietro una sedia pieghevole su cui poteva sedersi quand’era stanca, per fumare. Peccato che avesse sbagliato orario e adesso morirà con i capelli in disordine.
Subito dopo è diventata un peso morto: la testa reclinata sul petto, sussurrava invece di parlare, beveva a fatica con la cannuccia, mangiava con il naso quasi sul piatto, un po’ da sola , un po’ imboccata.
Ma non si disperava.
Ha pianificato con cura la propria morte: cremazione, niente funerale, una breve cerimonia in cui si leggerà una poesia che le è piaciuta, l’urna con le ceneri deposta nella tomba dei nostri genitori; ha scelto una fotografia scattata in questi giorni, con il sorriso, da mettere sulla tomba.
Scherzava pure: “Sulla mia tomba bisogna scrivere la mia data di nascita e poi “ha smesso di fumare il…”.
Ha fatto testamento e me l’ha fatto vedere perché non ci fossero errori.
Ha sempre letto, tutte le sere prima di dormire, fino a quando non è più riuscita a tenere il libro in mano. Le leggevo qualcosa io, ma lei non credo seguisse.
Oggi “lui” si è stancato di aspettare e le sta dando il colpo finale. Ma lei è sarda, e perciò cocciuta come tutti i sardi: continua a respirare, uno, due, tre, quattro… ma i rantoli aumentano, l’ossigeno nel suo sistema sanguigno scarseggia.
Mia sorella sta morendo e io sono seduto davanti a lei e la guardo morire, anche se sembra una donna che dorme russando leggermente.
Quante cose mi sto chiedendo. Le scruto il volto, per cercare di capire se nel suo cervello ci siano ancora sinapsi attive: sta sognando? sta pensando? sta soffrendo? sta capendo?
La sua espressione non cambia mai, non è però serena, almeno così a me sembra; mi sembra d’intravvedere una leggera smorfia di dolore, due rughe parallele dall’attacco del naso salgono sulla fronte, le avrà già avute quelle rughe? Non mi ricordo.
Sono tante le cose che non ricordo o che non so di mia sorella.
Non ha fatto una gran bella vita, per quel che ne so.
Ma io cosa so di lei?
Eravamo tre fratelli e una sorella: lei, la primogenita.
Posso dire che non eravamo una confraternita molto affiatata, anzi. Ognuno si faceva i fatti suoi, aveva i propri amici, i propri posti dove andare, io sempre fuori a giocare a tutti i giochi che si facevano all’epoca in cui i bambini potevano ancora farlo per strada.
Mia sorella? Non ho la più pallida idea di come abbia trascorso la sua infanzia. Ho vaghi ricordi di lei, suscitati più che altro dalle fotografie che una volta si raccoglievano negli album. Una bimba carina, ricciolina, esile.
I miei ricordi di lei iniziano da quando avevo forse dieci anni o poco più e lei era una teenager. Aveva la sua stanza da letto e immancabilmente sulla porta era affisso un cartello: Vietato Entrare.
Ovvio che quando lei non c’era non vedessi l’ora di frugare fra le sue cose, in particolare nei suoi diari, ove incollava le foto dei ragazzi più belli e famosi, soprattutto i Beatles, in particolare George Harrison, quello che le piaceva di più dei quattro. Sue foto in ogni dove.
Nella sua libreria in soggiorno questi diari ci sono ancora. Chissà, forse tornerò a spiare i suoi segreti di adolescente dopo sessant’anni. O forse no.
Intanto l’inesorabile macchina del tempo annuncia che è cambiata la data.
Grazie a lei ho imparato ad amare i Beatles, amore che non mi ha mai abbandonato.
Lei, più grande, il sabato pomeriggio aveva il permesso di uscire e andava in una piccola e favolosa discotechina che si chiamava “Tavernetta Duomo” perché era sotto una pizzeria in piazza del Duomo, dove giovani musicisti bresciani, alcuni dei quali diventati famosi, suonavano le canzoni inglesi e americane degli anni Sessanta. Una volta, dietro mie continue insistenze, mi ci ha portato.
Ancora oggi su Facebook c’è un gruppo dedicato alla “Tavernetta”: maledetta nostalgia di vecchietti.
Dada è una dei pochi fortunati italiani che è andata a vedere il concerto dei Beatles al Velodromo Vigorelli di Milano il 24 giugno 1964; io non avevo neanche undici anni e l’ho implorata di portare anche me, ma ordini venuti dall’alto l’hanno impedito.
Quello che so è che Dada ha iniziato a frequentare i beatniks locali, molti dei quali avrebbero fatto una brutta fine, infarciti dei libri di Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti.
Iniziavano a circolare le droghe. Non so se mia sorella ne abbia mai fatto uso. Di sicuro non beveva alcolici, anche il vino le ha sempre fatto ribrezzo.
Quello che è certo è che Dada, diventata un po’ più grande, non perdeva un sabato in discoteca neanche se aveva la febbre a quaranta, andando fino sul lago di Garda, al Biblò, al Sesto Senso, dove andavano quelli giusti, all’insaputa dei miei genitori.
I miei genitori neppure sapevano come si vestiva e si truccava per andare in discoteca. Usciva di casa vestita “in borghese”, ma nella borsa capiente aveva tutto l’occorrente per la metamorfosi che sarebbe avvenuta in casa della sua migliore amica, che ancora oggi lo è, anche se per poco tempo ancora. Via l’abbigliamento borghese e vai con gli hot pants, gli stivaloni fino a sopra il ginocchio, un trucco dark da Patty Pravo, sopracciglia quasi inesistenti, ciglia finte e lunghe, trucco pesante nero.
Ricordo una notte di un sabato sera. Io dormivo nella mia camera con il mio fratello più piccolo e a un certo punto sento urlare mio padre: «È questa l’ora di tornare a casa? E come sei vestita? Sembri una puttana!» e il rumore di uno schiaffone. Poi il silenzio.
L’unica volta in tutta la mia vita che mio padre ha picchiato uno di noi.
Poi so che ha fatto le magistrali e si è iscritta all’università, ma non ha fatto neppure un anno che ha mollato: il primo esaurimento nervoso, così allora veniva chiamato uno stato depressivo. Il primo di tanti che sarebbero arrivati.
Dall’università al lavoro di segretaria all’O.M., quella dei camion, prima che diventasse Iveco, della famiglia Fiat che l’ha appena venduta agli indiani di Tata. Ufficio acquisti. C’è stata tutta la sua vita lavorativa, finchè non è andata in pensione. Roba da depressione galoppante. Noia totale, incazzature verso dirigenti e colleghi fancazzisti. Non una bella vita lavorativa. Niente le manca del lavoro che ha fatto.
E gli uomini di mia sorella? Per quel che ne so, pochi e tutti sbagliati. A lei piacevano belli e dannati, manco fossero tutti dei James Dean.
Non ne ha mai azzeccato uno giusto. E se ne è pure sposata uno, più giovane di lei, cantante in un gruppo rock, tennista, ricciolino, alto e magro. Lavorava, quando non dormiva perché aveva fatto tardi, nell’officina di autoriparazioni di suo padre.
Non avevano niente in comune. Lei, tutta precisina e ordinata, impazziva quando vedeva le sue calze sporche di terra rossa buttate a terra, o quando non abbassava la tazza del water e magari le toccava anche pulire qualche goccia di pipì.
Lei voleva vedere i film tipo commedie sentimentali, lui quelli di inseguimenti in macchina e sparatorie.
Lei leggeva tutte le sere, lui forse non ha mai aperto un libro.
Ben presto si è stancata di seguirlo ai concerti dove lui si esibiva: stava lì e non le piaceva neanche la loro musica, e non sopportava le ragazzine in adorazione.
Lo stesso per i tornei di tennis a cui la portava, seduta un paio d’ore su una panca a vedere la pallina ora di qui ora di là, ora di qua, ora di là. Una barba.
In più lui spesso aveva gli incubi e la faceva morire di paura perché improvvisamente, di notte, si metteva a gridare.
Andò a dormire in un’altra stanza, quella del figlio che non arrivò mai, per sua fortuna, perché dopo pochi anni lui, di punto in bianco, le comunicò che se sarebbe andato di casa. Si separarono, divorziarono e chi si è visto si è visto.
Non ho più saputo se mia sorella avesse trovato un altro ragazzo o uomo che fosse: da allora ha sempre vissuto per conto suo, libera di fare quello che voleva, quando voleva e dove voleva.
Ha imparato a vivere da sola, magari con un cagnolino, occupata in tante piccole attività: leggere o al computer, ha scaricato dal computer più di tremila film e se li è visti tutti, a giocare a burraco contro il computer o a fare shopping online di piccoli oggetti per la casa, il lavoro, l’intervallo del lavoro a pranzo dai miei genitori, con la mamma che le preparava solo quello che le poteva piacere, il sabato con le amiche di sempre. Dopo la morte dei nostri genitori, tutti i giovedì scorta all’Esselunga, metodicamente le stesse cose per la settimana. Sembrava che questa vita le piacesse di più che avere un uomo in mezzo alle scatole.
Non vorrei che si pensasse che sto parlando male di mia sorella mentre sta morendo: non è così, lei era fatta a suo modo, mica siamo tutti uguali.
Diciamo che non era fatta per la coabitazione. Se poi abbia avuto delle avventure, io non ne so proprio nulla, non ho mai sentito una parola al riguardo.
Ma ho già detto che tra noi fratelli non c’era questa grande comunicazione. Anzi, dopo la morte dei miei genitori, c’è stato un lungo periodo di non frequentazione, per un’incomprensione che riguardava proprio mia sorella. Lasciamo perdere: oggi siamo tutti qui, vicino a lei come se non fosse mai successo nulla. Spero che duri.
Comunque sembrava che Dada avesse rinunciato a interessarsi della vita “vera”, qualunque cosa voglia dire “vera”. Per lei la sua vita era “vera”.
Spesso noi fratelli ce la portavamo in vacanza perché era sola: ci dispiaceva, e lei sembrava venire volentieri. Una volta in loco, però, non faceva nulla di quello che facevamo noi, tipo andare in spiaggia o a fare una passeggiata, come fanno tutti. Lei amava stare in albergo, in giardino, o in casa in Sardegna a leggere.
Ha smesso anche di venire in vacanza. Si era comprata un appartamentino sul lago dove passare le vacanze e pensava che avrebbe fatto amicizia con gli altri condòmini, ma lei non scendeva mai in piscina, le dava fastidio il sole, stava sul balconcino a leggere e vedeva che gli altri organizzavano barbeque, ma non la invitavano.
L’appartamentino sul lago è durato più o meno come il marito.
Ogni tanto la invitavamo a pranzo o a cena, sempre cercando di preparare quello che sapevamo che le piaceva di più. Ma da un po’ di tempo anche questi inviti sono venuti a mancare e ci si vedeva di meno, pur rimanendo sempre in contatto telefonico: «Come stai? Come va? Buon Natale! Buona Pasqua! Auguri di Buon Compleanno!».
Triste, vero?
Probabilmente avremo il classico senso di colpa post mortem di un parente stretto: dovevamo vederci di più, passare sopra tante cose che non ci andavano…
Ma da lei mai un rimprovero, mai un tono serio in queste miserevoli telefonate; invece la voce contenta di sentirti e che poteva raccontare a qualcuno le prodezze della sua cagnolina.
Devo dire una cosa di lei: quando, per forza di cose, in quest’ultimo periodo ci siamo visti di più, ha mostrato un interesse per noi e un attaccamento che forse non abbiamo meritato e ha chiacchierato e ha anche riso con noi, mentre “lui” le mangiucchiava le cellule.
Non so, se mi diagnosticassero quello che se la sta mangiando da dentro, se io sarei all’altezza della serenità di mia sorella, non so se riuscirei a sorridere pensando a bei tempi andati.
Tic, toc, tic, toc, tic, toc, tic, toc.
Quando mia sorella è nata, pare che la mamma sia stata in travaglio quaranta ore: dura a nascere, dura a morire.
Forse è nata con il fastidio di essere importunata, di non essere libera di fare quello che voleva, di coabitare con il resto del mondo.
Forse per questo non andava tanto d’accordo con la mamma.
La mamma, nei confronti di noi maschi, nulla o poco diceva: ci lasciava fare e, a dirla tutta, non era neppure molto affettuosa.
Con mia sorella era un’altra musica: le stava sempre addosso per lo studio, per il mangiare, per gli adempimenti fiscali che voleva, anche se non era obbligata, fare per lei, per qualunque cosa che pensasse che le convenisse fare, e mia sorella un po’ sopportava, un po’ sbuffava e ogni tanto esplodeva.
Con papà no: a parte quella famosa volta dello schiaffo, non ho mai assistito al minimo diverbio con lei, o peraltro con gli altri fratelli.
Solo una volta papà mi è corso dietro intorno al tavolo da pranzo con la cinghia che si era portato dall’Africa per legare la sella del cammello, bella pesante, ma non riusciva a beccarmi e dopo è scoppiato a ridere, come invece un’altra volta a tavola mi è scappato un “Non fare lo stronzo” rivolto a uno dei miei fratelli e mi sono visto tirare addosso un bicchiere pieno di vino che, per fortuna, ha preso la parete dietro di me.
Mai più detta una paroloccia in casa.
La parola “cazzo” è entrata ufficialmente in uso in casa mia solo dopo che tutti ci siamo sposati e solo una volta l’ho sentita dire da mia madre, che subito dopo si è coperta la bocca, arrossendo, mentre tutti ridevamo di cuore: «La mamma ha detto cazzo, la mamma ha detto cazzo!».
Mia sorella lo diceva spesso, ma ormai tutto è lecito e consentito.
La frequenza tra un respiro rauco e l’altro è altalenante: sono le tre e un quarto e ogni tanto vengo chiamato come se se ne stesse andando, ma poi riprende un respiro più regolare.
Il cuore batte che è una meraviglia. Non perde un colpo. Incomincio ad avere dei dubbi che morirà questa notte.
Per la verità non so se è un bene o se è un male. L’importante è che non soffra.
La ruga sulla fronte è svanita e il volto è più disteso. Chissà cosa vuol dire?
Sono ormai le quattro del mattino e incomincio a non reggermi più in piedi, e neanche seduto.
Mi sdraio sul suo letto, accanto a lei, e chiudo gli occhi, ma l’orecchio è teso all’ascolto del ritmo dei suoi brevi respiri, un ritmo che mi fa appisolare.
Verso le cinque mi risveglio, sembra giunta l’ora.
Invece no, Dada combatte contro il tempo.
Albeggia, sono le sei passate, il fornaio di fronte ha acceso le luci del negozio.
È passata a nuttata, come diceva Eduardo.
Tic, toc, tic, toc,tic, toc…
Il tempo sgocciola dall’orologio a muro.
Ho chiuso di nuovo gli occhi in poltrona, quando ho sentito una mano sulla mia spalla: mia cognata. «È finita», mi dice.
Io corro nella sua camera e mi siedo di fianco a lei, le prendo la mano ancora calda, metto la mia vicino alla sua bocca per sentire un soffio di vita. All’improvviso un suo scoppio di tosse mi fa sobbalzare, allora non è morta!
Invece sì: è l’ultimo suono che è provenuto da Dada.
Controlliamo i battiti del cuore. Sono assenti.
Dada è morta nel sonno.
Il sole si alza beffardo e preannuncia una giornata di caldo africano.
Io piango tenendo la mano di mia sorella.

IO

Sono seduto in una poltroncina di fianco al letto di agonia di Dada e non posso far altro che guardarla e pensare.
Cosa penso?
Non si può stare a guardare continuamente una sorella che muore senza che il cervello inizi a divagare.
Certo che mi fa una gran pena, certo che mi dispiace, certo che sono triste, e che cazzo! È mia sorella!
Ma il cervello si stanca, capisco che mi sto abituando alla sua agonia.
Se soffrisse, se gridasse per il dolore, se implorasse dio e tutti i santi di non farla morire, se lo bestemmiasse, se piangesse, penserei di meno e cercherei di agire, di fare qualcosa, abbracciarla, consolarla, farla sedare, non so, non ho mai assistito ad una morte difficile, sofferta, la medicina ti impedisce di sapere che stai morendo, tutti potranno commentare “Almeno non ha sofferto…”, Dada è già sedata e allora il tempo passa e lei non muove un dito, da ore e ore, solo quel leggero russare.
Penso che, nel momento in cui sta “vivendo” i suoi ultimi attimi, Dada assomigli molto alla mamma; non l’avevo mai notato prima.
Mi guardo in giro e mi stanno sulle palle i due angioletti. A loro non frega un beneamato pisellino.
Quanta gente sta morendo in questi minuti?
Lasciamo stare le guerre, parlo di malattie, di vecchiaia, di incidenti che leggiamo tutti i giorni sui giornali.
I necrologi sul giornale più venduto nella mia città oggi sono sedici, ma c’è un altro giornale, diciamo altri dieci.
E ieri quanti erano? E domani quanti saranno?
Cazzo, la gente muore in continuazione, la morte non si arresta mai, non nella mia piccola città, ma in tutto il mondo: ogni secondo che passa ci sono persone che muoiono. Ma se non le conosciamo, siamo come gli angiolettti di Raffaello: non ce ne frega niente.
Qualche volta ci turbiamo parecchio se muore un amico, è un dispiacere; beh, dipende da quanto si era amici, del resto quanti sono i veri amici?
Un lontano parente ci fa già meno effetto, un conoscente ci fa dire “Ah, è morto?”.
Se in un terremoto muoiono d’un colpo ventimila cinesi? O pakistani? O svizzeri?
Solo i ventimila delle Torri Gemelle se li ricordano tutti, però è diverso, li abbiamo visti in diretta, capirai. Uno show difficile da dimenticare, come quando hanno ammazzato Kennedy, o l’uomo ha posato il piede sulla luna.
Le vittime delle guerre? Sono una vergogna: ci indignamo, manifestiamo, scriviamo al giornale una lettera di protesta, ma dove andiamo a cena stasera, in trattoria o in pizzeria? Vada per la pizzeria: un po’ di rispetto, che cazzo!
Il dolore vero lo sentiamo quando muoiono il papà e la mamma, ma non dura troppo a lungo, in fondo ce lo aspettavamo, in fondo erano anziani – cazzo, ma adesso l’anziano sono io!
La vita va avanti. E rimane un bel ricordo, sempre che siano stati buoni con noi.
Non voglio neanche pensare al dolore che si prova quando muore un figlio o il proprio amato coniuge, mi rifiuto anche di immaginarlo.
Ci sono uomini e donne che, dopo la morte del coniuge, durano solo pochi mesi.
Chi dopo la morte di un figlio si toglie la vita.
Le famiglie non sono tutte uguali, felici o infelici, senza scomodare Tolstoj.
Ho visto persone felici che gli fosse morto il fratello con cui avevano litigato per un pezzo di terra e non si erano parlati più, felici che fosse morta la moglie separata, così non dovevano più passarle gli alimenti.
Quando in un attentato terroristico si ammazzano decine, centinaia, migliaia di persone, da qualche parte c’è gente che balla per strada dalla gioia.
Quando gli americani, con due sole bombe atomiche, hanno ammazzato duecentomila giapponesi in un batter di ciglia, negli Stati Uniti si davano le pacche sulle spalle: Good job, buddy!
Scusa, Dada, adesso torno a guardarti e provo la stessa pena, scusa se non ho pensato a te per un pò.
Mi concentro su di te, tu immobile, io immobile.
Fuori. Ma dentro?
Io non so se tu stai pensando, spero di no, ma ancora il mio cervello divaga, e questa volta non sono bei pensieri, me ne vergogno. Sto pensando che mi hai fatto vedere il tuo testamento e che mi lascerai un terzo dei soldi che hai e un terzo della tua casa. Chissà a quanto ammonta il tuo patrimonio?
Grazie, Dada. Ma è questo il momento di pensare a certe cose?
Certo che un po’ di soldi mi farebbero comodo.
Basta, cazzo! Perché penso senza pensare che penso a delle stronzate di fronte alla tua morte in arrivo? Devo distogliermi da questo pensiero, mi fa sentire un verme.
E cos’ho fatto io per meritarmi la tua generosità? Avrei sofferto di meno, non avrei pianto, mi saresti mancata di meno, se tu non mi avessi lasciato dei soldi?
Credo di no. Dico credo, perché non ho vissuto questa esperienza. No, chi sono io per criticare quello che tu avresti deciso di fare dei tuoi soldi? Potevi lasciarli tutti alla parrocchia, no? No, alla parrocchia no. A un ente di beneficienza che aiuta i bambini malati di cancro? Meglio.
Ma grazie comunque, Dada, di aver pensato anche a me. Ora so che avrei pianto come ho pianto quando hai tossito per l’ultima volta.
Adesso penso che sto morendo dal sonno e che vorrei dormire un po’, quindi non sto pensando a te, ma a me. Com’è bello dormire, quando hai sonno!
E infatti dormo mezz’ora e, quando mi risveglio, non riesco più a stare fermo. Non so quando morirai e penso che forse non è bello che tu ci metta tanto a morire; cerco di far passare il tempo, girando per la tua casa, guardando le tue cose.
Ma questo vuol dire che penso che tu debba deciderti a morire.
Pezzo di merda.
Pensa a Dada, a com’era bella e che, poveretta, sta morendo.
Ci penso, ci penso, lo giuro.
E a chi frega qualcosa di quello che penso io in questo momento? A nessuno, ovvio.
E allora perché sto scrivendo, a spizzichi e bocconi, invece di stare con te, Dada, a tenerti la mano, ad asciugarti la fronte sudata, ad accarezzarti i capelli?
Non è che la tua morte imminente mi faccia pensare a quanto mi resti da vivere? Ho settantadue anni, qualcuno sul giornale è morto prima di me, un infarto, il cancro, un ictus, un aneurisma improvviso, una caduta dalle scale, che ne so?
Ho paura della morte?
È per questo che il mio cervello continua a divagare?
Per non pensare non a te che stai per morire, ma a me che sto per morire, come noi tutti stiamo per morire?

LA MORTE

Dada è morta. Viva Dada.
Hanno messo il suo corpo in una bara e io le ho infilato dentro un pacchetto di sigarette.
Sarà cremata, come da sua volontà, e nel fumo del suo corpicino che brucia ci sarà anche il fumo delle sue sigarette, onnipresenti compagne di vita.
È stata cremata in un torrido clima africano; ho letto la poesia che aveva scelto ai pochi presenti, un inno alla non morte che infatti si intitola “Non piangere sulla mia tomba”, di Mary Elizabeth Frye. Commovente, ho trattenuto a stento le lacrime mentre la leggevo.
Ci hanno fatto sloggiare in pochi minuti: troppa gente da cremare, ci spiegano che ormai il settanta percento delle persone sceglie la cremazione, un brutto segno per i fan della resurrezione della carne.
A nessuno piace parlare di morte, giusto ai poeti, ai sacerdoti e ai filosofi.
Ci comportiamo come se la morte non esistesse, non ci riguardasse.
Non è un argomento di cui discutere a tavola, sarebbe di cattivo gusto.
Sono poche le certezze che abbiamo, ma la madre di tutte le certezze, la morte, facciamo finta che non esista, fino a quando non ci tocca da vicino, ma facciamo anche presto a dimenticarcene.
C’è la poesia vitalista, alla Walt Withman per intenderci, che inneggia alla vita, alla bellezza della vita. D’altro canto ci sono filosofi, alla Cioran per intenderci, che pensano che la vita sia una farsa sorretta da uno squallido copione. Poi ci sono quelli come Leopardi, che aspettano la morte come una liberazione dall’affanno di vivere, dal tradimento delle aspettative giovanili.
Ci sono quelli che ne prendono semplicemente atto e quando noi leggiamo “Siamo soli sul cuor della terra, trafitti da un raggio di sole, ed è subito sera”, diciamo: “che belle parole, che poesia, come illustra bene la vita e la morte”, e pensiamo: “dove potremmo passare il prossimo week end?”.
Siamo incoscienti o che altro? Mentiamo a noi stessi e non ci vergognamo.
Quello dice: “Io non ho paura della morte, tanto è destino…”.
Giusto, ma siamo sicuri che non ne abbia paura per davvero?
Forse dipende dal tipo di vita che abbiamo fatto. Se è stata una vita di merda, allora ben venga la morte. Sbagliato. Pensate alla vita di un recluso nel braccio della morte, per anni e anni in attesa di una grazia che non arriva mai: quando finalmente arriva quel giorno e non è dato rinvio, piange e si dispera. Preferisce continuare a vivere una vita di merda che morire.
La retorica ci ha convinto che è bello morire per la patria o per una giusta causa, ma cosa c’è di bello nel sangue, nel dolore, nel piscio, nella merda, nei tuoi intestini che fuoriescono dal tuo ventre dilaniato, negli occhi che penzolano fuori dalle orbite?
Fortunato chi muore nel sonno, senza accorgesene, dopo aver vissuto una vita serena!
Ce ne sono, ma quanti? E magari avevano paura della morte, mentre chi dice di non averne paura perderà il controllo degli sfinteri nel momento fatale.
Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla, per me questa è la verità.
In mezzo c’è la vita e i poeti ci invitano a godercela, carpe diem!
Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Retorica da quattro soldi.
Quante convergenze di eventi favorevoli servono a un uomo o a una donna per poter dire di avere vissuto una vita felice? Quanto culo ci vuole per nascere sani e belli quanto basta, in un paese libero, ricco, in una famiglia di persone intelligenti, affettuose e ricche quanto basta per farci godere i piaceri della vita, incontrare l’amore della vita ed essere riamati per sempre, fare il lavoro che ci piace e che non ci venga a noia, ben retribuiti, fare bei figli, sani, intelligenti, senza problemi che a loro volta conducano una bella vita, senza farci preoccupare, e avere nipoti altrettanto fortunati e invecchiare senza gravi malattie? E morire nel sonno, senza accorgesene.
Un sacco di culo, un culo inimmaginabile in un essere qualunque.
E se persone del genere esistessero, avrebbero paura della morte?
Chi sa rispondere a questa domanda senza prendersi per i fondelli, alzi la mano.
La conclusione è che, se la vita a tratti può essere bella e degna di essere vissuta, la morte è sempre una fregatura.
Ma la fede? La fede, la fede, la fede…
Senza dubbi non c’è fede, e il dubbio roderà il cervello del fedele come un tarlo. Se un uomo non ha mai un dubbio, allora è scemo e il suo parere conta come il due di picche.
E sul letto di morte l’assassino griderà: «Padre, ti prego perdonami, lasciami vivere ancora un giorno, un’ora, un minuto. Mi pento del male che ho fatto».
E il Padre dovrebbe rispondergli: «Non fare il furbetto con me».

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