Willa Cather – Peter

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«No, Antone, non so quante volte te l’ho detto, no, non lo venderai finché sarò vivo.»
«Ma ho bisogno di soldi; a cosa ti serve quel vecchio violino? Anche i corvi ti ridono dietro quando provi a suonare. Ti tremano le mani che non riesci neanche a tenere l’archetto. Domani verrai con me a tagliare la legna al fiume Blu. E vedi di alzarti presto.»
«Come, nel giorno del Signore, Antone, quando fa così freddo? Sento così tanto freddo, figlio mio, non andiamoci domani.»
«Sì, domani, vecchio scansafatiche. Io non la taglio la legna nel giorno del Signore? M’importa se fa freddo? Taglierai la legna e la caricherai pure, e quanto al violino, te lo ripeto, lo venderò lo stesso.» Antone rincalcò il berretto lacero sulla fronte bassa e pronunciata e se ne andò.
Il vecchio avvicinò una panca al fuoco e si sedette sfiorando il violino con le dita tremanti, e a fior di labbra disse: «Non finché campo, non finché campo.»
Erano arrivati cinque anni prima, Peter Sadelack e sua moglie, e il figlio maggiore Antone, e gli innumerevoli Sadelack più piccoli, lì nella parte più tetra del sud-ovest del Nebraska, e avevano preso una fattoria. Antone era il padrone indiscusso del posto e la gente diceva che era un giovane promettente e che si sarebbe portato bene. Che fosse cattivo e infido lo sapevano tutti, ma poco importava. Curava il granturco meglio di chiunque altro nella contea, e il grano gli fruttava sempre più che a qualunque altro uomo.
Nessuno sapeva granché di Peter, né aveva una buona parola da spendere sul suo conto. Beveva ogni volta che poteva nascondersi da Antone abbastanza a lungo da dare in pegno il cappello o il cappotto per il whisky. In effetti solo due cose non avrebbe dato in pegno: la pipa e il violino. Era un vecchio pigro e distratto che si divertiva di più a suonare il violino che ad arare la terra; comunque, a dire il vero, Antone riusciva sempre a far lavorare tutti fin troppo. Nella casa di cui era proprietario, dal bambino di tre anni al vecchio di sessanta, tutti si guadagnavano il pane. Eppure la gente continuava a dire che Peter non valeva niente, e che era un grande peso per suo figlio Antone, che non aveva mai bevuto, e che era un uomo migliore di quanto suo padre fosse mai stato. A Peter non importava che cosa dicesse la gente. Non gli piaceva il paese, né la gente, e men che meno gli piaceva arare la terra. Aveva tanta nostalgia della Boemia. In tempi lontani, secondo il calendario soltanto otto anni prima, ma a Peter sembravano otto secoli, era stato secondo violinista in un grande teatro di Praga. Era entrato a teatro da ragazzino e ci era rimasto tutta la vita, finché non aveva avuto un colpo apoplettico che gli aveva talmente idebolito il braccio da rendergli l’archeggio esitante. Così gli avevano detto che poteva andarsene. Era stato un periodo fantastico, quello a teatro. Non gli mancava certo da bere, allora, e indossava la marsina ogni sera, e c’erano sempre feste dopo lo spettacolo. Suonava, a quei tempi, sì che suonava! Non era mai riuscito a leggere bene le note, perciò non aveva mai avuto un ruolo di primo piano; però il suo stile… aveva davvero stile, così aveva detto Herr Mikilsdoff, il direttore d’orchestra.
Ogni tanto Peter pensava che avrebbe potuto arare meglio la terra se solo avesse potuto chinarsi come un tempo. Aveva visto le donne più belle del mondo, i più grandi cantanti e musicisti. Era nell’orchestra quando aveva recitato Rachel, e quando al concerto di Liszt la Contessa d’Agoult era seduta nel palco di proscenio e il Maestro le aveva lanciato gigli bianchi. Una volta una donna francese era venuta a recitare per settimane, non ne ricordava più il nome. E non ne ricordava bene nemmeno il volto, perché era così mutevole, non era mai uguale una volta con l’altra. Ma era così bello, e il desiderio che la sua vista suscitava negli uomini, quello lo ricordava. Più di tutto ricordava la sua voce. Non conosceva il francese, e non capiva una parola di ciò che diceva, ma gli sembrava che stesse parlando la musica di Chopin. E la sua voce, pensava che l’avrebbe riconosciuta anche all’altro mondo. L’ultima sera aveva recitato in un’opera in cui un uomo le sfiorava il braccio e lei lo pugnalava. Mentre Peter sedeva là, sotto le luci della ribalta, tra i getti fumanti delle lampade a gas, con il violino sul ginocchio, l’aveva guardata e aveva pensato che sarebbe stato felice di morire anche lui, se avesse potuto sfiorarle il braccio una volta e farsi pugnalare in quel modo. Quella notte Peter era tornato a casa da sua moglie ubriaco marcio. Anche a quei tempi era uno sciocco che pensava solo alla musica e ai bei volti.
Era tutto ben diverso, adesso. Non aveva niente da bere e poco da mangiare, e lì non esisteva nient’altro che il sole, e l’erba, e il cielo. Ormai aveva dimenticato quasi tutto, ma alcune cose le ricordava abbastanza bene. Amava il violino e la vergine Maria e, soprattutto, temeva il Maligno e suo figlio Antone.
Il fuoco era basso e il freddo aumentava. Peter rimase fermo accanto al fuoco a ricordare. Non ebbe il coraggio di buttare altre pannocchie nel fuoco; Antone si sarebbe arrabbiato. Non voleva saperne di tagliare la legna il giorno seguente: sarebbe stata una domenica, e voleva andare a messa. Forse Antone gliel’avrebbe permesso. Con il violino sotto al mento rugoso e i capelli bianchi che ci cadevano sopra, cominciò a suonare l’Ave Maria. La mano gli tremava più che mai, e alla fine si rifiutò di manovrare l’archetto.
Se ne rimase seduto intorpidito per un po’, poi si alzò e, portando con sé il violino, entrò di soppiatto nella vecchia stalla. Dal piolo staccò il fucile a tre canne di Antone e, al chiaro di luna che penetrava dalla porta, lo caricò. Si sedette sul pavimento sudicio e appoggiò la schiena sul muro sudicio. Sentiva i lupi ululare in lontananza, e il vento della sera sibilare mentre spirava sulla neve. Attorno a sé udiva il respiro regolare dei cavalli nel buio. Si mise il crocifisso sul cuore, e con le mani giunte e la voce rotta recitò tutto il latino che conosceva: “Pater noster, qui in coelum est.” Poi alzò la testa e sospirò: “Nemmeno un kreuzer Antone li pagherà perché preghino per la mia anima, nemmeno un kreuzer, è così attento ai soldi, è Antone, non li spreca per bere, è un uomo migliore di me, ma duro, alle volte. Fa lavorare troppo le ragazze, e le donne non sono fatte per lavorare così; ma non ti venderà, violino mio, non posso più suonarti, ma non ci divideranno; abbiamo visto di tutto insieme, e insieme ce ne dimenticheremo, la Francese e tutto il resto.” Tenne il violino per un attimo sotto al mento, dove l’aveva posato tante volte, poi se lo mise su un ginocchio e lo sfondò. Si tolse il vecchio scarpone, tenne il fucile tra le ginocchia con la bocca da fuoco contro la fronte, e premette il grilletto con un dito del piede.
All’alba Antone lo trovò rigido, congelato in una pozza di sangue. Non riuscirono a raddrizzarlo più di tanto per farlo entrare nella bara, così lo seppellirono in una cassa di pino. Prima del funerale Antone portò in città l’archetto del violino che Peter aveva dimenticato di rompere. Antone era un gran taccagno, e un uomo migliore di suo padre.


Traduzione di Emanuela Chiriacò

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