In Vittime perfette e la politica del gradimento, Mohammed El Kurd mette a nudo un dispositivo simbolico che, nel linguaggio della comunicazione contemporanea, si traveste di neutralità ma opera con la precisione chirurgica della propaganda. L’autore, poeta e giornalista palestinese, non parla soltanto del proprio popolo o della propria esperienza di espropriazione: parla del modo in cui il mondo occidentale ha imparato a consumare la sofferenza altrui come forma di intrattenimento morale, convertendo la tragedia in estetica, la denuncia in posa, la resistenza in narrazione “accettabile”. È qui che si colloca la sua riflessione più disturbante: nell’idea che anche la vittima, per essere ascoltata, debba risultare “piacevole”, compatibile con l’immaginario umanitario e mediatico dell’Occidente, che premia il dolore solo se è confezionato nel linguaggio della buona coscienza.
El Kurd non indulge in slogan, né concede appigli all’illusione empatica del lettore liberale. La sua scrittura è un atto di sabotaggio linguistico, un gesto di riappropriazione del discorso nel quale ogni parola sembra voler smascherare la grammatica dell’“accettabilità”. Ciò che definisce come “politica del gradimento” è la forma più sottile del potere coloniale: la capacità d’imporre non solo le regole della rappresentazione, ma anche i parametri emotivi entro cui la sofferenza può essere riconosciuta come legittima. Il testo, in questo senso, non parla di Palestina, ma attraverso la Palestina: come prisma attraverso il quale osservare l’intero sistema mediatico occidentale, con i suoi riflessi di pietà condizionata, le sue censure gentili, le sue geometrie del silenzio.
Leggere questo libro significa misurarsi con una sfida cognitiva: rinunciare al comfort del punto di vista “neutrale”, “politicamente corretto”, e interrogare il proprio ruolo nella produzione del consenso. El Kurd ci costringe a riconoscere che la comunicazione globale non è un semplice flusso d’informazioni, ma un campo di forze in cui visibilità e invisibilità vengono distribuite secondo un preciso calcolo politico. La sua voce, irriducibile e spesso scomoda, restituisce alla parola “testimonianza” un significato originario: non l’appello alla compassione, ma l’atto di resistenza contro l’oblio programmato.
In un’epoca che trasforma tutto in immagine e tutto in opinione, Vittime perfette ci ricorda che il linguaggio resta il primo e l’ultimo campo di battaglia del potere.





















