Trieste, dopoguerra: un bar qualsiasi, un uomo che beve un caffè, un colpo che lo inchioda per sempre. Si chiamava Bambino, e già in quel soprannome, in quell’ironia crudele del destino, si avverte tutta la dissonanza di una vita che ha imparato a odiare prima ancora di capire che cosa fosse l’amore. Balzano racconta la storia di Mattia, nato nel 1900, cresciuto in una città di lingue e padroni differenti e mescolati fra loro, nella quale la pietà è un lusso e la madre è un enigma. Quando scopre che la donna che l’ha cresciuto non è la sua vera madre, si spacca in due: da una parte la fame di sapere, dall’altra la furia cieca di chi non sa più a chi appartiene. E da quella spaccatura nasce un mostro. Ma non un mostro ideologico: Balzano è troppo lucido per offrirci l’alibi della politica. Bambino è una discesa nel magma di un cuore umano lasciato senza ossigeno, un romanzo che non chiede perdono né giudizio, soltanto di essere letto per quello che è, come se fosse una persona che voglia solo essere guardata in faccia. Ogni pagina graffia come carta vetrata; la lingua è netta, scarnificata, senza orpelli: una prosa che puzza di sudore, polvere da sparo, caffè bruciato.
Mattia attraversa la Storia come un cane randagio in mezzo ai carri armati: fascista, disertore, superstite, reietto, relitto. Nelle sue mani la violenza diventa l’unica grammatica possibile, un modo di parlare a quel mondo che non l’ha mai ascoltato. Ma in fondo al sangue resta sempre la stessa domanda, la più antica, la più animalesca: chi mi ha messo al mondo, e perché mi ha lasciato solo?
Balzano non scrive un romanzo storico: costruisce un dispositivo di vertigine. Bambino è un orologio senza lancette, in cui il tempo non passa ma si consuma. E noi, leggendo, ci sentiamo scattare dentro il meccanismo stesso della colpa.
Un’opera che non redime, ma scava senza ipocrisie né buonisti mascheramenti.





















