C’era una volta l’esordiente. Quello vero. Quello che ti sorprendeva con una voce nuova, la storia inattesa, l’originalità non ostentata. Era inesperto, certo. Ma vivo. Adesso, invece, pare che per esordire servano almeno cinque anni di esperienza sul campo, meglio dieci, magari come ghostwriter o copywriter o editor o, meglio ancora, autore di post virali. E se nel frattempo hai già venduto 20.000 copie di qualcosa, ben venga. Di più? Ancora meglio. Magari sei “esordiente” solo perché finalmente firmi con nome e cognome.
Non sono solo gli editori ad aver adottato questo approccio schizofrenico da azienda tech: “Cercasi giovane under 30 con almeno 15 anni di esperienza e tre progetti internazionali alle spalle”. No. La verità è che i lettori non sono da meno. Sono diventati selezionatori del personale, investitori di venture capital, manager da scrivania che analizzano il rischio prima ancora di leggere l’incipit. Vogliono garanzie. Di qualità, di genere, di linguaggio. Vogliono sapere che l’autore ha già avuto successo, ha già convinto qualcun altro, ha già dimostrato qualcosa – possibilmente tutto – prima ancora di farsi leggere da loro.
E allora? Allora l’esordiente che ha solo una buona storia da raccontare, e magari una voce ancora un po’ stonata ma autentica, resta fuori. Non viene “accolto” né dal mercato, né dalla community. Non è abbastanza “venduto”, non è abbastanza “social”, non ha il pedigree. Se osa presentarsi, viene scartato con una scrollata di spalle e una recensione da tre righe: “Niente di che”. Ma cosa ci si aspettava? L’ennesima penna raffinata e rodata, capace di maneggiare la narrazione come un chirurgo plastico?
E qui viene il punto più amaro: sono i lettori i primi a voltarsi dall’altra parte. Quelli che dicono “eh, non si pubblica più nulla di nuovo”: gli stessi che scartano ogni nuova voce prima ancora di averla udita. Quelli che si lamentano del piattume dell’editoria e sono i primi a comprare solo autori che conoscono già, o che hanno sentito nominare almeno tre volte in un podcast.
La paura di perdere tempo con un libro “non validato” è diventata più forte del desiderio di scoprire qualcosa d’inaspettato. Non si legge più per scoprire, ma per confermare. E se per caso un’esordiente riesce a infilarsi nella fila, viene letto con l’occhio clinico del giudice, più che con quello aperto del lettore: “Vediamo se te lo sei meritato”. È il lettore che oggi vuole sentirsi superiore al testo. E così non scopre più nulla. Solo conferme, conferme, conferme. Il nulla che conferma se stesso.
Gli editori cavalcano questa onda, ovvio. Come tutte le aziende, vendono ciò che si vende. Ma non sono loro ad aver creato il lettore diffidente, impaziente, spietato, quello che si vanta di aver abbandonato un libro a pagina 12; quello che cerca nel romanzo la stessa gratificazione istantanea di un reel; quello che “non leggo italiani, non leggo viventi, non leggo sotto le 500 recensioni”. Sono i lettori stessi ad aver costruito la gabbia in cui ora si lamentano di essere rinchiusi.
Esordire, oggi, è un atto di presunzione. Ma anche leggere lo è diventato. Presumi che il libro ti debba qualcosa, prima ancora che tu lo apra. E intanto il rischio, il dubbio, la scommessa – cioè tutto ciò che rende la lettura un’avventura – si sono persi per strada.
E allora forse è giusto così: chi ha paura del nuovo si merita solo il déjà vu: impaginato bene, venduto meglio, e vuoto come una recensione da una stella senza commento.
Mo Bart





















