Non sono un ingenuo, so bene perché Elisabetta Sgarbi ha pubblicato le “poesie” di Joan Baez e ha investito denaro per la traduzione di Elena Malanga. Non ci rimette di certo. Joan Baez è famosa, molti lettori l’hanno amata come cantante e si possono incuriosire fino al punto di comprare un suo libro. Certo che, se invece delle poesie di Joan Baez fossero le liriche giovanili di Carlo Rossi, nessuno avrebbe mai pubblicato uno scempio simile, perché di poetico tra queste pagine c’è davvero poco.
Joan Baez compone una sorta di diario del tempo perduto, dal taglio molto adolescenziale: ci racconta la sua vita, i suoi affetti, le sue passioni – in una parola gli affari suoi – in una non richiesta confessione al mondo. Poesia-racconto che non prevede alcuna ricerca lessicale – il termine più sciatto va subito bene – , tanto meno una sorta di musicalità, del tutto rifiutata: nelle poesie si va a capo quando capita, senza una regola.
Non mi pento / di averti baciato / la primissima sera / quando non c’erano giusto / o sbagliato / solo un mondo a parte / e il battito sconsiderato / del mio cuore agitato. Basta un esempio per far capire che la poesia non abita da queste parti: siamo in presenza di frammenti, semplici pensieri buttati sul quaderno senza starci tanto a pensare, come se la poesia fosse questo, come se la poesia fosse attendere l’ispirazione dal cielo.
Un altro assaggio di capolavoro: Ah, ecco cos’è! / Tutti gli uomini e i ragazzi / con cui ho fatto l’amore / erano rivestiti in foglia d’oro, / che se n’è caduta / quando mi sono rotolata nel letto / cercando l’aria con il piede.
Era davvero necessario dare alle stampe certe prelibatezze? Molti poeti veri – che lavorano sulle sudate carte cesellando il verso – vengono pubblicati da microscopici editori, mentre La Nave di Teseo compie queste operazioni commerciali rivolte ai fan della musica del passato travestite da poesia.
Da evitare come la peste.





















