C’è un momento nella storia del fumetto in cui il re, Jack Kirby, decide di fare un salto vertiginoso: misurarsi con 2001: Odissea nello spazio. Sì, proprio il film di Kubrick, quello che ha fatto discutere generazioni di spettatori tra sbadigli, illuminazioni e viaggi cosmici lisergici. Kirby, che già stava costruendo mondi con i suoi Dei, i Quarto Mondo e le galassie in fiamme della Marvel, prende in mano quel monolite nero e lo trasforma in vignette, in tavole che sembrano vibrare di elettricità cosmica.
Il risultato è straniante: non è una semplice “riduzione a fumetti” del film, ma una reinvenzione. Kirby non ha paura di mettere il suo marchio, di infondere quel senso di potenza barocca che lo contraddistingue. E così, mentre Kubrick aveva lasciato il pubblico sospeso nel mistero e nel silenzio, Kirby alza il volume, disegna energie che esplodono, figure che si deformano nello spazio, universi che nascono a colpi di matita.
Le reazioni? Divise, ovviamente. Alcuni spettatori “kubrickiani puri” lo videro come un sacrilegio, una versione troppo roboante di un’opera contemplativa. Ma altri, soprattutto i lettori che conoscevano la furia immaginativa di Kirby, capirono: non era una copia, era una trasfigurazione. E, come spesso accade con il Re, ci mise dentro qualcosa che anticipava il futuro dei fumetti di fantascienza: un modo di raccontare l’infinito che, più che spiegare, travolgeva.
Ma come ci arrivò Kirby a disegnare 2001? La storia è curiosa. Dopo il suo ritorno alla Marvel a metà anni Settanta – un ritorno da “figliol prodigo” un po’ forzato e un po’ trionfale – Kirby si ritrovò coinvolto in progetti che avevano un occhio al cinema. L’editore voleva cavalcare l’onda del successo delle grandi pellicole di fantascienza, e quale titolo più prestigioso, più mitico, più enigmatico di 2001: Odissea nello spazio? Così il Re si trovò tra le mani una sfida impossibile: trasformare in fumetto un film che molti definivano “indisegnabile”, fatto di silenzi, simboli e visioni astratte.
Eppure Kirby, da sempre abituato a immaginare l’invisibile, ci si buttò con un entusiasmo furioso. Non solo realizzò l’adattamento a fumetti del film (pubblicato nel 1976), ma arrivò persino a lanciare una serie mensile ispirata al monolite e alle sue “invasioni evolutive”, spingendo la storia in direzioni che Kubrick e Clarke non avevano nemmeno sfiorato.
La parte più chiacchierata, ovviamente, fu il finale. Laddove Kubrick aveva lasciato lo spettatore a bocca aperta, sospeso nella nascita dello Star Child, Kirby fece ciò che fa sempre: diede una forma concreta al mistero. Il suo finale non era solo un’immagine poetica, ma una vera e propria interpretazione del senso di quell’evoluzione. Kirby mostrò senza mezzi termini cosa significa trasformarsi, cosa comporta essere “scelti” dal monolite, e in che direzione va la storia dell’uomo.
La reazione? Un misto di sconcerto e ammirazione. Molti critici e lettori non sapevano se prenderlo sul serio o se accusarlo di aver “rovinato” il mistero di Kubrick. Ma la verità è che Kirby aveva colto un punto fondamentale: quel film non era fatto per rimanere muto, era un detonatore di visioni, un invito a immaginare. E chi, meglio del Re, poteva raccogliere l’invito? Così, mentre il pubblico si divideva tra chi non capiva e chi fingeva di aver capito, Kirby si prendeva il lusso di mostrare la sua versione – una versione che, a rileggerla oggi, suona meno “eretica” e molto più rivelatrice di quanto non sembrasse all’epoca.





















