Il cielo smorto sopra le lapidi del piccolo cimitero sembrava un sudario che non riuscisse a stare del tutto diritto. Le cupe nuvole rasenti ne davano il contorno scuro, e una pioggia sottile, insistente, grondava sulle croci di marmo, sulle foto incorniciate dalla plastica, sui fiori rigati d’acqua e di terra benedetta.
Maria Luisa, davanti alla tomba di suo padre, era inginocchiata su un lembo d’erba ormai fangosa. Le mani sfioravano la pietra. Sotto l’odore del muschio e della terra umida riconosceva il profumo – ormai quasi soltanto un ricordo – del sigaro che lui fumava prima di dormire. La nebbiolina che risaliva dalle tombe teneva sospeso l’odore del tabacco bruciato, il suo respiro rauco, la promessa di parole che non aveva detto.
Intorno, alcune famiglie – bambini che correvano nelle pozzanghere, lasciati allo stato brado da adulti con mantelli scuri o impermeabili logori – le passavano accanto senza guardare troppo a fondo. Un’anziana signora, con orecchini di perla, piegava il capo davanti a un enorme cipresso. Un uomo dal viso scavato teneva in mano un cero tremolante; tremava forse per il freddo, forse per qualcos’altro. Poche parole, quasi un sussurro: «Buona giornata», «Ti pensiamo», «Riposa in pace», «Ci manchi».
Maria Luisa tirò fuori una piccola fotografia ingiallita di suo padre quand’era giovane: occhi vivi, sorriso stanco – il genere di sorriso che si stampa sul volto di chi ormai ha visto troppo. Pensava a quanto lui avesse amato il caffè nero all’alba, e a come avesse sempre insistito nel dire che la morte è soltanto un passaggio: «Qualche ora di buio, poi il mattino». Lei non era certa di crederci, ma non aveva parole o convinzioni migliori.
Mentre la pioggia aumentava, dal piccolo mausoleo sul fondo uscì un suono: una porta che cigolava. Un ragazzo, probabilmente il guardiano, venne verso di lei con un ombrello logoro. Portava una lanterna accesa, il vetro consumato. Maria Luisa notò come la luce di quella lanterna facesse tremare le ombre delle lapidi. C’era in quel tremito un’eco di qualcosa di più antico, una voce che parlava senza lingua.
Quando si fu allontanato, tornò a guardare la fotografia. «Stanotte, papà», mormorò, «ti verrò a cercare nei sogni». Una promessa che suonò come una preghiera. Le sue labbra tremavano, non per la pioggia, ma per un’esitazione che la vita le aveva scavato nel cuore.
D’un tratto, un gatto nero attraversò il vialetto tra le tombe, furtivo. Pareva cercasse di evitare l’acqua, ma i suoi baffi e il pelo erano già intrisi di pioggia. Si fermò davanti alla tomba del padre, miagolò una volta, un miagolio rauco, aspro come un rimprovero, poi scappò via.
Maria Luisa restò pietrificata. Quegli occhi gialli di gatto le fecero impressione: forse la morte non era qualcosa di lontano, ma un ospite inesperto che ci tocca sulla spalla per ricordarci quanto siamo vivi, e quanto tempo ci siamo lasciati dietro le spalle.
Qualcuno più oltre iniziò a cantilenare una litania: versi antichi, ricordi di preghiere recitate a orecchio, promesse fatte nel buio, carezze negate. La voce si confondeva con il rumore della pioggia, che ne tambureggiava il ritmo, e con il palpitare delle foglie.
Maria Luisa alzò lo sguardo: il cielo non si era fatto più chiaro, ma c’era una fenditura, un taglio sottile attraverso il quale una tenue luce filtrava. Era come se la morte avesse permesso, per un momento, che la grazia s’infiltrasse nella crepa.
Le lacrime, rade e lente, le scesero a testimoniare di un’intimità dolorosa: il riconoscimento di quanto aveva evitato di sentire – la mancanza, l’amore non detto, la colpa inutile. Il cuore le sembrò traboccare al pensiero che, benché suo padre non fosse più fisicamente lì, qualcosa di lui restava vivo nel vento freddo che scuoteva il cipresso, nel peso del cielo che gravava sulle tombe, in quel gatto nero che sapeva camminare tra i vivi e i morti.
Mentre quel poco che restava del sole, una macchia luminosa soffocata dalle nubi, si ritirava dietro le colline lontane, la nebbia si abbassò ancora, coprendo voracemente le tombe, quasi volesse inghiottirle.
Maria Luisa si alzò, le ginocchia rigide, gli abiti pesanti di umidità. Lasciò la fotografia accanto alla pietra, il cero tremolante all’ombra del cipresso, un garofano rosso nel vaso inchiodato alla lapide – gli unici colori in quel grigio monotono e uniforme.
Salutò il silenzio con un sospiro. Non sapeva se la notte le avrebbe portato sogni – forse stavolta no – ma, per la prima volta da molto tempo, avvertì il confine sottilissimo tra la vita e la morte vibrarle dentro. Una presenza lieve, oscura, ma percepibile.
Mentre usciva dal cimitero, la pioggia finalmente rallentò. Dietro di sé udì un tonfo – qualcosa che cadeva: una pietra che si spostava da una tomba vicina. Si voltò, ma non vide nulla, neanche il ragazzo con la lanterna. Solo l’ombra, la nebbia, il silenzio. Qualcosa in lei, però, le ricordava quel che diceva suo padre: la morte, nel giorno dei morti, non è mai del tutto quieta.





















