Cinzia Petri – Valerio e il cameriere

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Il cameriere passa tra i tavoli, scivola silenzioso sulle mattonelle lustre. Sembra una ballerina sulle punte, sospesa in assenza di gravità. Stasera ho ordinato gamberoni al brandy. La comanda del nostro tavolo vola veloce verso la cucina, la porta con gli oblò si apre e si chiude con un soffio, senza sbattere: nessun rumore deve distogliere i commensali dal cibo. Non ricordo se il ristorante sia segnalato sulla guida Michelin, se abbia qualche stella.
«Non avrei mai preso i gamberoni, chissà se sono freschi». Valerio non può fare a meno di dire la sua. Sta controllando l’etichetta del vino, troverà di sicuro delle informazioni mancanti e finirà per chiamare il cameriere e farglielo notare. Non possono rifilargli una cosa per l’altra. «Cosa pensano, che siamo tutti ingenui?».
È la seconda volta che richiama al tavolo quel poveretto col suo tono saccente. Già so che il cameriere sta fingendo di compiacerlo per non sbattergli una bottiglia sulla testa. Paziente, lo ascolta. Sorride, annuisce piano. Lo tratta con una cortesia che non merita per poi allontanarsi verso gli altri avventori, starà architettando di sputare nel suo risotto alla bottarga con emulsione di vongole veraci. Un piatto da trenta euro, arricchito da uno sputo schiumoso su cui Valerio non avrà da ridire, stavolta.
Mi porto il tovagliolo alla bocca per soffocare una risata. Lo conosco da anni e sono costretta a concedergli qualche uscita perché è un vecchio amico di famiglia. Ha sempre qualcosa da confutare. Non c’è nulla che gli stia bene così com’è, vuol sempre dire la sua, anche quando nessuno l’ha interpellato, anche quando si rivolge a persone di comprovata esperienza. Lui non si arrende, però, ha dalla sua la vecchia cantilena secondo la quale il cliente ha sempre ragione.
Ora prende il tappo tra le mani, lo rigira lentamente. Alzo gli occhi al cielo, c’è di nuovo qualcosa che non funziona. Valerio aggrotta le sopracciglia: il tipo di sughero gli risulterà dozzinale, avrà notato che il vino è di un’annata troppo vecchia per un bianco. Alza il dito per chiamare il cameriere. Di nuovo. Quanto durerà ancora questa tortura? Siamo qui per festeggiare un avanzamento di carriera, per cui si prospetta una cena completa, in grande stile.
Tossisco, cerco di distoglierlo dai suoi propositi. Il cameriere lo vede da lontano, fa cenno con la testa. Starà pensando a come eliminarlo il prima possibile dalla sala: ci sarà una trentina di persone a cena e se fossero tutte come Valerio lo staff dovrebbe prenotare un paio di sedute di psicoterapia a settimana. Immagino le visioni che vorticano scomposte nella testa del maître, mentre maneggia vassoi con crudi morbidi adagiati sul ghiaccio e pezzi di lucidi frutti esotici: Valerio infilzato da un coltello alla base del ventre, la testa che dondola sul piatto di porcellana finemente decorata, il sangue che cola sulle tovaglie immacolate e sui pavimenti d’autore; Valerio con il carapace di un gambero – fresco, sicuramente – infilzato nell’occhio, il bulbo che s’ingrossa e pulsa scivolando fuori dall’orbita; Valerio con una lisca di branzino grossa come un’asta conficcata a mezza gola, che gli impedisce di respirare; Valerio che tende la mano per implorare aiuto, il corpo che si scuote nell’agonia mentre il cameriere recita ad alta voce l’etichetta del vino che lui ha appena contestato. Una bottiglia pregiata, custodita con cura in posizione orizzontale all’ombra, alla debita temperatura, con la grazia di anni di torture subite da una sequela di stronzi boriosi come lui.
Vorrei ridere a crepapelle ma Valerio ha un’espressione molto seria. Sbuffo dentro al tovagliolo e lui mi fulmina, seccato. Starà pensando che deve insegnarmi come stare al mondo. Penso con fastidio a tutte le volte che gli ho accordato serate come questa per dovere verso le nostre famiglie. Quando Valerio passa a prendermi con la sua automobile d’epoca, con la faccia di chi passa la vita in giro su costosissimi bolidi, dentro ristoranti famosi, con donne autorevoli, devo costringermi per non salire la rampa delle scale a ritroso. È allora che la voce di mio padre mi sussurra nella testa che Valerio è un ragazzo fragile, non ha avuto la mia fortuna. Che la sua famiglia aiuta la nostra da tre generazioni e ci lega un rapporto di stretta collaborazione, di fiducia collaudata. Se a novembre mangio la bruschetta con l’olio nuovo dei nostri oliveti, lo dobbiamo a loro.
Il maître vortica tra i tavoli piroettando con i piatti in bilico a testa alta, la schiena ben eretta, l’immancabile sorriso sulle labbra. Quando da lontano ha notato il suo braccio ancora per aria, il sorriso si è trasformato per un attimo in una smorfia. Mentre vira verso il nostro tavolo è ben composto, con giusto un lieve accenno di avversione: deve ancora finire di servire i quattro tavoli arrivati da venti minuti. In un locale del genere l’attesa è inconcepibile, eppure Valerio continua a fissarlo e a pretendere la sua attenzione, fottendosene degli altri. Valerio continua ad agitare quel braccio maledetto, per criticare chi fa questo mestiere da prima che lui s’infilasse le dita nel naso. Avrei voluto tagliarglielo con una sega elettrica.
Il cameriere adesso è al tavolo, il gomito piegato dietro la schiena. Mi balena il sospetto che nella mano stringa un machete per scalzargli la testa dalle spalle. Invece si piega leggermente verso di lui e ascolta con aria grave. Una volta educatolo a dovere, Valerio fa un cenno con la mano. Il suo ruolo è esaurito: ha fatto tutto il possibile, mi rivolge un’occhiata complice. Lo fisso e, per un glorioso istante, lo immagino mentre va a pisciare nei campi, dietro ai cespugli, come faceva quando i suoi nonni non avevano ancora il bagno in casa.
Invece continua a pavoneggiarsi, gioca a imboccare gli altri con le sue conoscenze da rivista, mostra un’arroganza impietosa. Vorrei vederlo rivoltarsi sotto a un treno, i denti che sbattono con violenza contro le rotaie mentre sopra al suo corpo, nella carrozza-ristorante, servono panini mosci, ripieni di insaccati che sanno di plastica.
Lo sguardo del cameriere mi supplica muto di trascinarlo via, di levarglielo da davanti. Deve sentirsi sull’orlo di un baratro: non vuole perdere il lavoro ma sta per detonare lì, in mezzo alla sala, a causa di un babbeo che lo oltraggia da più di un’ora. Altri tavoli lo reclamano, i clienti si girano in continuazione, deve ancora prendere le loro ordinazioni mentre Valerio si ostina a dire che c’è proprio tanta gente che non sa fare il proprio mestiere.
Ora che ci penso, però, neanche lui sa fare il suo. Lo osservo con la vacua fissità del potere. Deve accorgersene perché, finalmente, si zittisce. Il cameriere si passa un fazzoletto di stoffa sulla fronte sudata, credo che stia immaginando le ferie in Tailandia. Valerio prova a gettargli un’occhiata di aperta riprovazione ma lo fermo con una zampata dritta al ginocchio, con cui spero di compromettergli la rotula. Lui rincula, sorpreso. Non si sarebbe mai aspettato un gesto tanto volgare.
«Smettila», gli impongo con inflessione ferma.
Corruga la fronte, tira indietro il mento. «Ma…» prova a fiatare.
«Stai zitto». Il mio tono non ammette repliche.
Valerio ritorna nella sfera delle proprie competenze, quelle reali. Quelle per cui viene pagato dai miei, troppo generosamente, ogni cinque del mese.
«Hai colto i pomodori?».
Mi fissa con terrore, sbianca. Teme che qualcuno possa sentirmi. «L’ultima volta erano flosci, metti più concime» gli ordino, alzando la voce.

 

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