I Superni (Overlord) si manifestano, instaurano una supervisione che elimina guerre e povertà; il mondo prospera, ma s’insinua una trasformazione finale che sovverte l’idea stessa di umanità.
Immagina una pace che cala dall’alto e che al contempo ti svuota le mani: gigantesche astronavi immobili sopra le città, il mondo che smette di confliggere e in cambio perde qualcosa di più sottile e irreparabile. Le guide del tramonto (Childhood’s End) di Arthur C. Clarke comincia così, con un’imposizione gentile, con il cordiale colpo d’ala di chi arriva per «custodire» l’umanità – e procede fino a un orlo inafferrabile, sul quale la salvezza incomincia a somigliare a una catastrofe.
Non è un romanzo che vanti colpi di scena ad ogni capitolo: è piuttosto un congegno di visione, costruito per interrogare la fine dell’infanzia collettiva. Clarke non ci regala mostri malevoli, né leader straziati: ci mette davanti a un’alternativa radicale – l’ordine esterno che cancella le ragioni interne. Il paradosso sorprendente è quello tra l’aspetto demoniaco dei Superni e la funzione benevola che svolgono: una contraddizione che lavora come un bisturi sul mito religioso e sulla paura atavica dell’Altro. Questo squilibrio tra immagine e intenzione è la fessura da cui fuoriescono tutto l’orrore e la meraviglia del romanzo.
Dal punto di vista formale, è una pietra miliare perché fonde l’ampiezza staplediana – la storia umana vista su scala generazionale – con un’economia di racconti episodici che servono un disegno escatologico. Clarke articola il libro in tre grandi sezioni, ognuna con il proprio tono: l’arrivo e il controllo, gli anni di “età dell’oro” sotto la guida aliena, e infine la dissoluzione finale dell’umano nel nuovo corso evolutivo. È un romanzo che legge la Storia come se fosse un organismo, e la sua prosa, quando deve, si fa quasi liturgica: asciutta ma capace di momenti profondamente poetici.
Il valore di Le guide del tramonto non è solo nelle idee spettacolari che propone – l’elevazione collettiva, la fine dell’identità – ma nella fredda lucidità morale con cui Clarke evita di cercare appigli consolatori. Qui non troviamo la moralistica riparazione dei torti, né il comodo ritorno al passato: la narrazione osserva, registra e infine lascia accadere. Questa sospensione di giudizio – che per alcuni lettori può suona come cinismo, per altri come onestà – è ciò che rende il libro spiazzante e duraturo.
E poi c’è la questione della fede nella scienza e nella trascendenza, un sottotesto che attraversa tutta l’opera. Clarke, da scienziato e sognatore della tecnica, non è ingenuo: sa che il progresso può avere risvolti cataclismatici. Non è solo una visione di speranza tecnologica, ma un’esplorazione di ciò che perderemmo abdicando dalla nostra responsabilità di esseri umani. La pagina finale, che spalanca la porta sull’ignoto, ci lascia con una sensazione ambivalente – l’estasi e il lutto intrecciati – e questo, più di ogni effetto, è il marchio indelebile del romanzo.
Le guide del tramonto esercita una pressione critica sul presente che aumenta con gli anni. In un’epoca in cui affidiamo decisioni sociali ad algoritmi e piattaforme, suona come un campanello d’allarme e insieme come una preghiera laica: che cosa siamo disposti a barattare per la sicurezza, e quale prezzo pagherà il nostro immaginario collettivo?
Clarke non dà risposte facili: ci consegna una visione che continua a interrogarci, anche quando abbiamo chiuso il libro.





















