Un’opera eccessiva e provocatoria
Il libro d’esordio dello scrittore bresciano è forse la sua opera più nota, un romanzo di formazione parzialmente autobiografico. Vengono narrate l’infanzia e la giovinezza di Barbino, cresciuto nella campagna della Bassa Bresciana per poi fuggire verso anni itineranti fra alberghi sul lago di Garda, bar nella Milano da bere, alloggi di fortuna a Parigi, l’ultimo dei quali condiviso con l’amata/odiata Arlette, per approdare a Londra, dove si chiude la narrazione.
Fra le pagine del libro Barbino, come ogni adolescente, ricerca e ridefinisce continuamente la propria identità, determinato a scoprire e a seguire i propri impulsi nel più totale disprezzo di ogni morale. Esperienze sessuali variegate costellano ogni luogo e ogni incontro, da quelle precocissime con il maestro Petenfio fino agli incontri mercenari consumati nel pied-à-terre di Comare Volpe, ex catechista di Montichiari incontrato casualmente nella capitale francese.
La sessualità e, nello specifico, l’omosessualità del protagonista deborda dalle pagine del romanzo con crudezza, talora con ironia, mai con romanticismo. Gratuita, eccessiva, disturbante è l’enfasi che accompagna amplessi, malattie veneree, squallori di bagni pubblici e retrobottega. Altrettanto debordanti risultano i monologhi interiori del protagonista che, a dispetto di una sintassi ricercata, poco aggiungono alla vicenda.
Un’opera barocca e prolissa, nelle quasi cinquecento pagine che la compongono, che tuttavia ha il pregio di una lingua usata con sapienza, che sa spaziare dal registro alto a quello gergale, o addirittura vernacolare.
Se il romanzo appare ridondante nel suo dipanarsi, crudo e potente è invece il primo capitolo, scritto in terza persona, che narra l’infanzia del protagonista. In una campagna bresciana primordiale si muove una moltitudine di personaggi, narrati senza nulla concedere al sentimentalismo: il Negher, padre bello e ozioso, la madre piegata dal lavoro e da sogni mai realizzati, che insegue il figlio con la canna della polenta in mano, Feerdeniskus, il pastore morbosamente attratto dai bambini, la piccola Nanda con il suo eccitante odore di pesciolino in salamoia. In questo mondo fatto di passioni violente e primitive, Barbino trova il suo ruolo: è il culatì, marchio inevitabile per un ragazzino che ama indossare abiti femminili.
La narrazione dello stigma e della scoperta di se stesso è tuttavia scarna, del tutto priva di autocommiserazione, perché, come recita il folgorante incipit, che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore.
Un’opera eccessiva, in tutti i sensi, ma con pagine difficili da dimenticare.





















