Marinella Farella – Fiori gialli

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Un passo, piano.
Osservo la siepe che segue con eleganza la curva del marciapiede: nessun ramo oltrepassa la cancellata verniciata di fresco, nessuna foglia verde brillante imbratterà, cadendo, il selciato.

Due passi in punta di piedi.
Occhieggio la palazzina oltre la siepe: è ampia, bianca, in stile vagamente Liberty. Emerge nella freschezza ordinata del giardino come una casa di bambole. È una casa fanciulla.

Tre passi.
Un movimento: una donna si affaccia a una delle finestre del secondo piano. Sta pulendo qualcosa sul vetro aperto. Poi si ode la voce di un bambino, sottile come il guaito di un cane; si volta, ride, si china.

Quattro passi.
Non esiste ancora la palazzina nel verde, la siepe è sparita. Nella mia memoria esplode un viluppo di altissimi steli selvatici, sormontati da spine e da fiori color giallo sporco.

Passavo ogni mattina di lì, diretta a scuola, mano nella mano con mia madre. Sulla curva guardavo oltre la rete rugginosa e sospiravo: erano belli, quei brutti fiori selvaggi. Volevo portarne un mazzolino alla maestra. Li avrebbe sistemati nel vecchio vaso di vetro scheggiato, sull’armadio, dopo avere ripetuto con un sorrisetto che sì, erano belli. E io avrei goduto tutto il giorno la strana sfumatura delle loro corolle, immaginando prati incolti e nascondigli segreti.

Allora la mamma, complice, allungava un braccio. La sua manica di cotone profumato svaniva nella sterpaglia e la mano strappava alcuni fiori per me, con fatica: erano belli, non volevano morire.

Cinque passi.
Sento il vento di un’automobile che transita sulla strada. La luce del sole ferisce di nuovo i miei occhi, la casa candida ricompare, la finestra al secondo piano si chiude. Non c’è più nulla di ciò che rammento.

Non mi fermo, non ascolto più. Ho un piccolo dolore dentro. Un passo ancora e l’angolo verde è alle mie spalle. La via continua a fluire davanti a me.

Vorrei ancora fiori gialli.

FINE