Fiabe slave sul sacrificio del figlio

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La storia bulgara I tre fratelli e Dio ci invita a riflettere su come il carattere della letteratura orale sia al contempo transnazionale e specificamente locale.
Essa è da collocare in una lunga serie di fiabe che, nell’ambito del folklore slavo, narrano del sacrificio dei figli da parte dei loro genitori.
Possono essere individuati tre gruppi principali di storie:
quelle che ruotano intorno alle leggende russe come Re Paparim e La Donna Misericordiosa, con una numerosa serie di varianti;
le leggende ucraine su I fratelli che vennero resi ricchi da Dio in veste da viaggiatore con analoghe versioni bulgare, tra cui la nostra storia, e leggende in versi serbe, come Il diacono misericordioso e sua moglie che hanno tratti in comune con alcune fiabe bretoni (Santa Touina, L’Eremita e la pastorella, Il re Dalmar) e con la fiaba “Il fedele Giovanni” dei fratelli Grimm;
le storie slavo-ecclesiastiche riguardo a Il Pio mercante e il racconto georgiano de Il mercante gentile che hanno elementi simili a un episodio del poema francese di Amis et Amyles.
Questi racconti hanno così tanti elementi in comune da dover ipotizzare che possano avere la medesima origine. Nelle storie di Re Paparim e delle Donna Misericordiosa il piccolo sacrificato viene bruciato in una stufa per salvare il piccolo Gesù in fuga dai soldati di Erode, e sopravvive, trasfigurato per grazia di Dio.
Una forma primitiva di tale narrazione è presente in alcune leggende musulmane sulla preservazione di Mosé e nei vangeli arabi. In una versione araba della storia di Mosè è la sorella di Jochabed che accende il fuoco in un forno, non sapendo che suo nipote si trova lì dentro. Questo costituisce un elemento di transizione verso la storia apocrifa dell’infanzia di Cristo che si trova nei vangeli arabi, ove il figlio di una donna che era stata generosa con la vergine Maria sopravvive alla morte dopo che una vicina maligna lo ha gettato in un forno. È dunque in Asia che dobbiamo cercare le radici.
Sappiamo che i vangeli apocrifi sono molto antichi e che le storie musulmane sono successive, eppure queste ultime esprimono uno stile più arcaico, ed è interessante notare come la leggenda russa in versi La Donna Misericordiosa abbia punti in comune sia con gli uni che con le altre: la persecuzione di un neonato e l’introduzione di due donne e due bambini. E di tutte le storie cristiane su questo tema la più arcaica è quella russa, pur concedendo che le versioni armena e persiana dei vangeli apocrifi mostrino la connessione più chiaramente.
Nel secondo gruppo (la leggenda bulgara qui tradotta e quelle affini, bretoni e serbe) la storia del sacrificio è sostanzialmente diversa: il bimbo viene usato per curare un malato. Anche qui vi sono analogie con il Vangelo dell’Infanzia, ove Giuseppe e Maria curano una giovane lebbrosa bagnandola con l’acqua usata per lavare il bambin Gesù.
A dire il vero la leggenda bulgara non si svolge esattamente in questo modo,e si potrebbe pensare a una contaminazione di questa storia con altri frammenti dello stesso Vangelo apocrifo (come la sunnominata storia del bimbo arso nella stufa): si sa che la letteratura orale mostra molti esempi di tali combinazioni.
Nelle storie di questo secondo gruppo si rappresenta poi Dio che vaga per il mondo, idea che è in contraddizione con i sistemi religiosi dell’Asia occidentale e non è riconciliabile con il monoteismo di Ebrei, Cristiani e Musulmani. Nella letteratura del buddismo, invece, non solo troviamo personalità divine che viaggiano sulla Terra, ma anche la dottrina etica del sacrificio portata a un tale estremo da permettere l’offerta di un figlio. Alcuni hanno anche affermato che la storia di Abramo e Isacco appartenga a questo mondo religioso, ma vi è ragione di attribuirla al periodo più antico della storia ebraica, quando si riteneva che i sacrifici umani facessero piacere a Dio. Questo sacrificio, però, non ha niente in comune con gli insegnamenti di Sakya-Muni, che ordina ai suoi discepoli di sacrificare sé stessi, le loro mogli e i figli, persino per il bene dell’uomo più umile.
Una storia simile (un bambino che viene gettato nella stufa per il bene di un ospite, e poi è miracolosamente riportato in vita) si trova come episodio in un racconto della raccolta indiana intitolata Vetalapanchavincati che, secondo l’opinione di Theodor Benfey, orientalista e filologo tedesco (1809-1881), è probabilmente di origine buddhista.
La cessione di un figlio da parte del proprio padre a un qualsiasi mendicante che chiede l’elemosina è l’aspetto più caratteristico della storia del Principe Vessantara, un racconto che è conosciuto nel mondo buddhista dall’Oceano Pacifico fino alle steppe della Russia europea. Vessantara è l’ultima incarnazione di Buddha, nella forma di un Bodhisattva.
La storia completa di Vessantara si trova solo tra i buddhisti, ma c’è un altro racconto indiano che è penetrato in ogni parte dell’Europa, quello che parla del fedele Viravara, la migliore versione della quale si trova nel Hitopadesa, una raccolta indiana di novelle in prosa e versi simile al Panchatantra. L’opera, redatta in sanscrito attorno al XII secolo, raccoglie racconti popolari risalenti a molti secoli prima.
Le storie del terzo gruppo, come quella del “Pio mercante”,sviluppano ulteriormente il tema del sacrificio caritatevole. Il protagonista uccide il figlio e utilizza il suo sangue per guarire un lebbroso. Il piccolo viene poi resuscitato.
La credenza che il sangue di un bambino, specialmente di un primogenito, possa curare la lebbra è molto diffusa nei racconti popolari. È stata utilizzata fin dall’antichità anche con uno scopo religioso-didattico, come dimostra la parabola tradizionale diffusa tra gli ebrei e (citata anche nel secondo volume di The Legends of the Jews dal rabbino Ginzberg) che spiega come sia questo il motivo per cui il Faraone voleva uccidere i figli degli israeliti. Qui c’è una contaminazione tra storie diffuse fin dall’età classica, come nelle pagine della Naturalis Historia di Plinio sull’uso di bagni nel sangue umano da parte degli egizi e nei racconti dello storico alessandrino Artapano riguardo la malattia del faraone che visse all’epoca dell’infanzia di Mosè, Chenephres (pare soffrisse di elefantiasi). Tale storia giudaica uscì dall’oralità nel medioevo, entrando nelle tradizioni midrashiche. Molto interessanti sono le illustrazioni ad essa relative, come quelle dell’Haggadah di Praga, libro sui rituali della Pasqua ebraica più volte ristampato nel XVI secolo, ove viene raffigurato il Re Egizio, coperto di piaghe, immerso in un bagno con i nobili che aprono le vene di bambini il cui sangue sgorga sul suo corpo; sullo sfondo vi sono donne che piangono.
Nella parabola ebraica il sacrificio degli infanti viene inequivocabilmente condannato, mentre nelle altre storie, sebbene sia diffusa un’invariabile repulsione verso l’idea di un sacrificio senza scopo o delittuoso, si fornisce però un motivo per giustificare il crimine, generalmente accettato come un male minore che fornisce il mezzo di sfuggire ad uno più grande. Oppure si compie il crudele gesto per amore di Dio e della fede, o per amore dei poveri, o in segno di gratitudine per una gentilezza passata.
Un esempio di come tale motivo sia stato sviluppato anche in occidente è la versione della vicenda contenuta in Amis et Amiles, un antico poema della letteratura cavalleresca francese che appartiene alla vasta produzione della Chanson de Geste, basato su una nota leggenda di amicizia e sacrificio. Nella sua forma più antica è la storia di due amici uno dei quali, Amis, era ammalato di lebbra perché aveva commesso uno spergiuro per salvare il suo amico. Una visione lo informò che poteva essere curato solo da un bagno nel sangue dei figli di Amiles. Quando Amiles lo seppe uccise i propri figli, che furono comunque miracolosamente riportati in vita dopo le cure prestate ad Amis.
Sarebbe interessante uno studio comparativo internazionale che metta a confronto tutte le numerose versioni esistenti delle storie che abbiamo riferito.
con la collaborazione di Gabriella Mariani

Storia bulgara dei tre fratelli e Dio

Una volta, nei tempi antichi, quando il Signore andava in giro per il mondo, vi erano tre fratelli. Un giorno viaggiavano mestamente verso una terra straniera quando videro sul ciglio della strada una fonte d’acqua e si fermarono per placare la loro sete. «Ah!», disse il fratello più anziano, «se il Signore facesse sgorgare vino da quella fontana invece che acqua, io costruirei lì una taverna, e darei vino gratuitamente a ogni viandante che lo chiedesse».
Ora, il Signore era là e lo udì, e la sorgente fu trasformata in un attimo in vino. Così il fratello maggiore rimase in quel luogo e, per un certo periodo, diede vino a tutti quelli che lo chiedevano. Ma dopo un po’ divenne avido, e non avrebbe dato una goccia di vino a nessuno a meno che non lo pagasse.
Gli altri due fratelli continuarono a cercare un lavoro. Un giorno videro una montagna e, su di essa, un pianoro sul quale stormi di corvi e cornacchie si erano stabiliti. Il secondo fratello disse: «Ah! Se soltanto il Signore trasformasse questi uccelli in pecore, io costruirei un ovile e darei latte a tutti coloro che lo chiedessero». Non appena ebbe parlato il suo desiderio fu esaudito e, per un certo tempo, fece come aveva promesso; ma anche lui presto divenne avaro e non avrebbe dato via una cucchiaiata senza pagamento.
Il fratello più giovane continuò il suo viaggio da solo, e alla fine raggiunse una città dove prese servizio da un locandiere e rimase con lui per molto tempo. Quando il suo padrone vide la sua bontà e obbedienza, gli diede la propria figlia come sposa, e la coppia visse felicemente insieme perché entrambi erano gentili e di buon cuore. Ora, desiderando il Signore verificare la fede dei tre fratelli, si travestì da vecchio uomo e andò per primo da colui che aveva la fontana di vino. Prese una crosta secca di pane e gli disse: «Figliolo, dammi una tazza di vino per inumidire questo pane secco, perché io sono vecchio e non ho denti per masticarlo».
«Vattene», fu la risposta. «Se dovessi darlo a ogni passante, non mi rimarrebbe più niente».
«Ma, figlio mio, se non lo dai a nessun altro, dallo a me perché non ho denti per masticare il mio pane secco; e inoltre, tu non hai comprato quel vino, è il Signore che te l’ha dato».
«Non posso dartelo, vecchio; vattene!».
Il Signore se ne andò, ma appena ebbe fatto un po’ di strada la fonte si trasformò nuovamente in acqua. La stessa cosa accadde al secondo fratello.
Per ultimo il Signore andò dal più giovane, travestito da vecchio coperto di ferite e piaghe sulle mani, con gambe e volto terribilmente ripugnanti alla vista. Era sera e, quando egli bussò, la moglie venne alla porta. «Che cosa vuoi, nonno?» disse.
«Posso restare per la notte con voi? E’ buio; non ho una casa dove andare, e sono malato; lasciami sdraiare dietro la tua porta».
La donna ebbe pietà del povero vecchio e lo fece salire a scaldarsi. Essendo il marito tornato a casa, chiesero al vecchio come aveva fatto a ridursi così e se non vi era rimedio. Egli rispose che una sanguisuga gli aveva parlato di una cosa della quale, se ne avesse mangiato un po’, sarebbe guarito; ma che non poteva essere comprata col denaro. Dopo molte insistenze li informò che avrebbe potuto essere guarito mangiando della carne di un bambino, il solo figlio dei suoi genitori.
Il marito e la moglie decisero di uccidere il proprio bambino, «Noi siamo giovani, e il Signore ci darà altri figli».
Nonostante le suppliche del vecchio uccisero il figlio, lo misero in una pentola e lo cossero in forno. La moglie mandò il marito a vedere se il bambino era ben cotto. Mentre stava riportando la pentola in casa dalla cucina, l’uomo tolse il coperchio e vide gli occhi del bambino rivolti verso di lui, ma pensò che fosse morto.
Il piatto venne servito davanti al vecchio, che ne mangiò un po’ e divenne perfettamente sano. Il bambino tornò in vita dopo essere stato benedetto dal vecchio, che poi scomparve. Così la donna e suo marito compresero che si trattava del Signore.
Il Signore lasciò la sua benedizione in quella casa, e la famiglia per generazioni e generazioni non vide alcun male, e ottenne il Regno dei Cieli.

(Tratto da Slavonic Folk-Tales About the Sacrifice of One’s Own Children di Mikhail Dragomanov e Oliver Wardrop, pubblicato su The Journal of the Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, Vol. 21 [1892], pp. 456-469)

Tradotto da Anna Ettore

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