Nathalie Bauer: la scrittura al servizio della storia

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Nathalie Bauer, dopo il dottorato in Storia, incomincia a veder pubblicate le sue traduzioni nel 1990, diventando in breve una delle più importanti traduttrici francesi dall’italiano (fra gli autori da lei trasposti Primo Levi, Natalia Ginzburg, Paolo Giordano, Margaret Mazzantini, Antonio Pennacchi).
Firma il suo primo romanzo nel 2000, Zena, cui seguiranno Le feu, la vie (2007) e Des garçons d’avenir (Ragazzi di belle speranze, 2011).

Siamo onorati di pubblicare questa intervista che ci ha concesso con grande disponibilità e in un italiano perfetto.

Tanto il tuo primo romanzo, Zena, quanto il secondo, Le feu, la vie (per ora inediti in Italia), sono incentrati soprattutto su una galleria di personaggi credibili e sui loro rapporti. Il tuo terzo romanzo, Ragazzi di belle speranze (Des garçons d’avenir), pur essendo basato sui diari e sulle corrispondenze ritrovate di tuo nonno, mantiene comunque questa impostazione. Infatti, oltre a Raymond Bonnefous, il protagonista, ne metti in scena molti altri, che interagiscono con lui. A che cosa si deve questa tua attenzione per i personaggi, alla loro interazione, agli equilibri e disequilibri che si creano tra di loro?

I personaggi sono i pilastri, la carne di un romanzo, come lo sono i concetti nei ragionamenti filosofici. Sono loro che reggono la logica della narrazione, la plausibilità della storia, la giustezza del tono. E’ anche grazie a loro che puoi misurare il grado di verità del tuo libro. Perché ad un certo punto, mentre scrivi, arriva il momento quasi magico in cui i tuoi personaggi «prendono il potere», cambiano la direzione della storia, piombano anche nei tuoi sogni, la notte, decidono loro. A quel punto bisogna solo assecondarli come dei cavalli, senza frenarli troppo e senza lasciarli andare a briglia sciolta.

Dev’essere stata una grande emozione personale ritrovare gli scritti di tuo nonno. Che cosa ti ha fatto decidere di condividere con i lettori qualcosa di così intimo, pur traslato in forma di romanzo?

Ho fatto di questo materiale un romanzo perché non sono riuscita a farlo pubblicare come documento storico. In Francia le testimonianze lasciate dai protagonisti della prima guerra mondiale sono numerosissime e gli editori pensano in genere che pubblicare un’enesima opera di questo genere sia inutile. Ma io non potevo accettare l’idea che questa storia si perdesse nel nulla.

I personaggi di Ragazzi di belle speranze guizzano molto vivi dalle pagine che hai scritto. È vero che la maggior parte di loro sono persone realmente esistite, ma li hai conosciuti soltanto attraverso gli scritti che hai ritrovato. Eppure riesci a renderli così reali che, durante la lettura del romanzo, sembra di conoscerli, e dopo aver chiuso il libro si ha l’impressione di aver fatto parte delle loro vite fino a dove tu li hai accompagnati; e si vorrebbe saperne di più.
Che cosa ti permette di rendere i tuoi personaggi così vividi?

I personaggi sono tutti inventati, a parte quello di mio nonno – e forse lui è in una certa misura anche un nonno inventato. Ho conservato i cognomi che si leggono nei diari (a parte quello di Declercq) e ho costruito i personaggi basandomi sulle foto e gli scritti di mio nonno, le associazioni di idee, i suoni, le impressioni, le mie letture, le testimonianze storiche, i film che ho visto, l’inconscio, insomma tutto cio che nutre un autore. Mio nonno non descriveva mai i suoi amici, parlava solo delle loro attività al fronte. Non descriveva nemmeno i periodi di licenza a Parigi e a casa. Io mi sono infilata in questi vuoti, ed è in questi spazi che ho inserito la trama. Ho pensato che gli amici di mio nonno fossero certamente dei borghesi perché a quell’epoca erano sopratutto i borghesi che intraprendevano gli studi di medicina.
Infatti, questo romanzo è anche una riflessione sulla società francese di quell’epoca, in particolare sulla borghesia e sulla grande svolta che costituisce questo periodo storico nella società occidentale. Nel romanzo affronto il problema della borghesia nelle sue componenti principali: l’alta borghesia di Declercq, la cui importanza è in via di declino non solo sul piano sociale ma anche su quello delle idee; la borghesia commerciale, industriale e finanziaria che prende il soppravvento (Emile, il secondo marito della madre di Declercq); gli intellettuali (Morin) e la borghesia di origine rurale (Bonnefous), molto diverse tra di loro e tutte fondamentali nella società francese. Mi interessava esplorare quest’ambiente e questa svolta da un punto di vista letterario e non storico.

I libri che preferisco sono quelli che, una volta terminata la lettura, ti lasciano con un’esperienza di vita in più. È il caso del tuo romanzo. Questo è dovuto all’esperienza che tu stessa hai vissuto scoprendo di punto in bianco questa parte della vita di tuo nonno?

Questo libro è anche il frutto di un mio desiderio: conoscere il giovane che è stato mio nonno e che di sicuro stava ancora nascosto in qualche posto, dentro di lui, durante i sedici anni che abbiamo condiviso. L’ho sempre considerato un eroe, una figura mitica. Lo era nel senso stretto perché, in quanto chirurgo e amministratore, ha salvato delle vite umane. Era anche un uomo di potere, in quanto politico, ma un politico dedito al bene comune, come lo erano i politici di una volta. E aveva una presenza fisica fortissima e rassicurante: quando stavo insieme a lui finalmente non avevo più paura di niente e mi sentivo al sicuro. Un uomo che riunisce tutti questi aspetti è anche un mistero, un enigma, sembra che abbia trovato il modo giusto di vivere e si vuole capire qual è. Non bisogna dimenticare che gli uomini della sua generazione e del suo ceto sociale non parlavano mai dei propri stati d’animo, dei propri problemi, non si raccontavano mai, contrariamente a quello che succede oggi, per cui era difficile cogliere la loro essenza.
Più tardi, dedicandomi allo studio della prima guerra mondiale, ho capito che è stato un evento fondatore della nostra società contemporanea perché segna la fine del mondo rappresentato dal’800 e la nascità dell’era moderna. Si traghetta brutalmente dall’uno all’altra. Questo punto di rottura mi affascina: dopo non si è più potuto vivere come prima, non si è più tornati indietro.

Il personaggio di Zouzou è una tua invenzione, eppure sembra estremamente reale nel contesto in cui l’hai collocata. Inoltre è un personaggio singolare per la sua epoca, uno di quei personaggi femminili di cui ci s’innamora durante la lettura e che si vorrebbe conoscere nella vita reale. Su che cosa ti sei basata per crearlo?

Avevo bisogno di un personaggio feminile per documentare il cambiamento che la prima guerra mondiale ha rappresentato per le donne. Da allora le donne hanno incominciano a lavorare nei campi e nelle fabbriche per ovviare alla mancanza di manodopera maschile, nelle amministrazioni, ma anche -ed è questo che mi interessa più di tutto- a «fare carriera»: nelle scienze, nelle arti e nello spettacolo. Con la guerra, si sono aperte delle opportunità per loro e sono state pronte ad accoglierle, mentre la maggior parte degli uomini, che temevano di perdere i loro vantaggi, si aggrappavano al passato. Socialmente la guerra ha cambiato le carte in tavola, ha segnato l’avvento del mondo degli affari e il declino dell’alta borghesia e dell’aristocrazia. Il denaro prendeva il posto di valori quali la famiglia e la nascita.

Oltre ad essere un romanzo sul valore dell’amicizia, Ragazzi di belle speranze è un romanzo sulla memoria, tra l’altro pubblicato a ridosso del centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. Eventi che percepiamo come remoti, ma che tali non sono, come non lo è l’umanità dei personaggi che hai rappresentato e che trasuda da ogni pagina. Qual è secondo te l’importanza della memoria, specialmente in un’epoca tendenzialmente “smemorata” come la nostra?

Abbiamo tutti un dovere di memoria perché le lezioni della Storia ci consentono di evitare la ripetizione degli errori passati -in teoria, perché nei fatti la Storia si presenta come un eterno ritorno, come una successione di cicli, e gli eventi si ripropongono inevitabilmente sotto altre forme che ci ingannano. Ma lo scrittore può avere un ruolo importante in questo processo, perché coglie l’aria dei tempi e rilegge il passato sotto una chiave non scientifica come fa lo storico, ma intima, fatta di emozioni e sentimenti.

So che stai lavorando ad un nuovo romanzo. Di che cosa parla? Vuoi anticiparci qualcosa?

E’ una saga famigliare. Proseguo l’esplorazione della mia famiglia.

Tu “nasci” come traduttrice. Come è avvenuto, per te, il passaggio dalla traduzione alla narrativa?

In realtà ho incominciato prima a scrivere: un diario (quando avevo undici anni), poesia (quando ne avevo quindici), poi della narrativa (dai vent’anni in poi), ma non sono stati pubblicati i miei primi testi (a parte qualche poesia in una rivista). Nel frattempo, mentre preparavo il mio dottorato di ricerca, ho trovato un lavoro nell’editoria in quanto lettrice di narrativa e saggistica italiana. Poi mi hanno proposto di tradurre. La traduzione dunque è entrata nella mia vita quasi per caso. Ho lasciato l’università dopo il dottorato per fare il mestiere di traduttrice.

Erri De Luca ha affermato: «Quando qualcuno mi chiede come si fa a diventare scrittore, io rispondo tranquillamente: diventando prima traduttori». Quanto è utile l’esperienza di traduzione, e quindi la confidenza con testi altrui, nel diventare narratori?

Stefan Zweig scrive nel Mondo di ieri che tradurre è il modo migliore per imparare a scrivere perché consente di conoscere altre sintassi e altri modi di usare la lingua. Direi che è una meravigliosa palestra, grazie alla quale si puo scrivere ogni giorno indossando la scrittura di un altro e acquisire agilità con la lingua.

La traduzione è una forma di conoscenza?

E’ una forma di sapere, di «savoir-faire», il sapere di un artigiano. Lo paragono spesso a quello di un falegname o di una ricamatrice. Più gli anni passano, meglio si lavora, perché si accumulano esperienza e scioltezza. E’ un mestiere umile che predilige l’ombra alla luce, ed è per questo che mi piace. Invece la scrittura è una forma d’arte che include il rischio e la luce.

Tradurre è tradire? Ovvero: la traduzione è anche un adattamento, una riscrittura nella misura in cui lo richiede la trasformazione in un altro idioma? E quanto va perso e quanto guadagnato nella traduzione di un testo letterario in un’altra lingua?

Per me una buona traduzione è una traduzione che sembra scritta nella lingua d’arrivo e non nella lingua di partenza. Deve essere fluida, sciolta, e restituire allo stesso tempo colori e ritmo originali. Il traduttore deve rimanere in bilico, essere presente e assente allo stesso tempo. Il traduttore è un traghettatore, la scrittura che traduce non gli appartiene.

Sei d’accordo con l’affermazione di Italo Calvino «tradurre è il vero modo di leggere un libro»?

Direi piuttosto che è un modo impietoso di leggere, perché quando traduci ti salta all’occhio tutto, bellezze ed errori, sopratutto debolezze. In genere, dopo aver tradotto un libro, non lo rileggo mai. E’ come vedere con una lente di ingrandimento. E rimane per me un lavoro.

A proposito di letture: ogni buono scrittore è anche un assiduo lettore; quali sono, secondo te, gli scrittori contemporanei che andrebbero assolutamente letti?

J.M. Coetzee, W.G. Sebald, Claude Simon, Salman Rushdie.

E i “classici” da riscoprire?

Per me non sono da riscoprire, ma da leggere e rileggere sempre, perché sono dei maestri: Faulkner e Proust.

Scrivendo ti esprimi con un linguaggio semplice, diretto, pur non rinunciando ad immagini fortemente poetiche. Quanto ritieni che sia importante la leggibilità in un’opera letteraria?

Senza storia, la scrittura più bella gira a vuoto, è solo virtuosismo, un piacere che si fa lo scrittore ad uso esclusivamente personale. Importa sopratutto mettere la scrittura al servizio della storia che si narra. Con l’esperienza, si scopre che esiste un unico modo, un modo giusto, di raccontare bene una particolare storia. Non si puo narrare allo stesso modo una storia intimistica, che richiede un tempo dilatato, o una saga famigliare. La difficoltà consiste nell’individuarlo.
E’ in genere il lavoro che si fa nelle prime cento pagine di un libro.

Secondo te la letteratura può e deve produrre coscienza nel lettore?

Ci vorebbe un’intervista intera per questo argomento.

Perché scrivi? Perché la scrittura?

Scrivo perché non ne posso farne a meno. Per non impazzire forse. O per continuare a vivere. Per cercare di addomesticare le belve che mi circondano e quelle che abitano dentro di me.

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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