Erri De Luca: Il testimone inaffidabile

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Intervista a Erri De Luca  

Quando gli abbiamo scritto per chiedergli un’intervista, Erri De Luca ci ha risposto asserendo che considerava un privilegio ricevere questa attenzione. E’ da questa sua affermazione che siamo partiti, quando l’abbiamo incontrato sotto i portici della Scala di Milano, in un assolato pomeriggio di maggio.

Sentir parlare di privilegio in un mondo in cui si avverte un’enorme distanza con la dimensione dell’arte ci ha riportato all’umanità delle relazioni, al significato di privilegio nei rapporti umani. Un’umanità che si avverte molto nelle sue opere, sono racconti di vita densi di un senso di naturalezza e di appartenenza alle cose e all’umanità che parte dal basso, tant’è che riescono a oltrepassare i confini della realtà territoriale di cui lei narra. Perché, quindi, “privilegio”? Perché questa parola? Che cosa significa per lei?

Un privilegio per me è ricevere delle domande da persone che sono curiose di me, delle cose che faccio, dei racconti; curiose di una persona. Le domande che vogliano avvicinarsi a una persona, che vogliano conoscerla: ecco, questo è un privilegio.
Io ho appartenuto a una generazione che è stata interrogata dai magistrati, i quali non volevano chiedere per sapere, ma chiedere per ottenere.
C’è una differenza tra i due verbi, e il latino la specifica bene. Chiedere per sapere è il latino del verbo querere, quindi questionare, fare delle questioni, e appartiene al chiedere per sapere, per conoscere. Poi c’è il verbo petere, che è chiedere per ottenere, e quello è un chiedere sapendo già, dando già per scontata la risposta e volendo ottenere semplicemente una reazione da mettere agli atti, da allegare agli atti.
Dunque, conoscendo la differenza fra questi due modi di porre domande, considero un privilegio per me ricevere queste domande del verbo querere.

Leggendo le sue opere siamo rimasti colpiti dalla delicatezza del linguaggio, dalla capacità di percepire la compassione. Si avverte un senso di profonda umanità scaturire dalle parole, che in qualche modo sono ricercatissime e in qualche modo, invece, suonano estremamente semplici e arrivano dritte al cuore. Se dovessimo dare una definizione, diremmo che è uno scrittore che scrive con amore…

Marcos Ana, un vecchio poeta spagnolo che ha passato molto tempo nelle carceri franchiste, e che proprio lì è diventato poeta, uscendo dopo venti e passa anni di prigione e cominciando a girare il mondo con le sue poesie, aveva incontrato, una volta, il poeta nobel spagnolo Miguel Ángel Asturias, e riportava i dettagli della loro conversazione.
Asturias gli diceva che, quando lui scriveva una poesia e gli capitava di avere sotto la penna un aggettivo abbastanza consumato, ovvio, scontato, andava a cercare nel vocabolario l’aggettivo più raro, più prezioso, più ricercato. Marcos Ana gli rispose che lui faceva il contrario, che quando si trovava sottomano una parola non troppo semplice, allora cercava nel vocabolario la più evidente, la più schietta, la più semplice, la più conosciuta. Io non faccio né l’uno né l’altro: per me il racconto è il tono di voce di uno che lo sta narrando dall’interno, e allora devo solo azzeccare quel tono di voce, raggiungerlo nell’ascolto. Una volta che lo sento, che sono ricevente di quel tono di voce, viene da sé l’uso delle frasi, e anche la loro lunghezza, perché le mie frasi non sono più lunghe del fiato che ci vuole a pronunciarle. Non so se c’entri l’amore, secondo me c’entra solo la possibilità di seguire un tono di voce. Il tono di voce di uno che sta raccontando la storia dal suo punto di vista, dall’interno, quindi non da un punto di vista panoramico, non dalla distanza della terza persona, che lo scrittore ha quando scrive una storia di personaggi. I miei personaggi non sono personaggi, per me sono prima di tutto persone. Considero “personaggio”, alla lettera, un peggiorativo della parola “persona”.

In numerose interviste ha dichiarato che molte di queste voci le sono state affidate da esperienze dirette, da racconti di persone con cui ha vissuto o che ha conosciuto. Ad esempio, nel suo libro “Il contrario di uno” lei narra di un urlo, udito e riportato dallo zio del protagonista, che colpisce il lettore con una tale intensità, con una tale empatia che non resta soltanto una parola, ma diventa un sentimento di comunanza, di riconoscimento. Ci chiedevamo, quindi, quanto sia importante l’oralità nella trasmissione di una memoria, nella continuazione di una memoria. Un’oralità che sembra non esserci più, come se non ci fosse più niente da raccontare, o, forse, orecchie abituate ad ascoltare…

A me sembra che, fra le generazioni susseguenti la mia, manchi qualcuno che racconti le storie, qualcuno in famiglia. Nelle case non abitano più i nonni: se non sono in crociera, quando se lo possono permettere, sono negli ospizi, quando non se lo possono permettere. Tutta l’età adulta, l’età anziana, è considerata da rottamare, e quindi non c’è più l’ascolto di questi racconti. Nella mia infanzia, invece, questo ascolto c’era: si raccontavano le storie, quindi mi si è formato un orecchio capace di trattenerle. Posso trattenere lunghe storie: le ho sentite tante volte, e quindi per quello si sono fatte strada. Non ho una memoria prodigiosa, semplicemente l’abitudine ad ascoltarla. Posso sentire le storie e trattenerle dentro di me da qualche parte. E poi tirarle fuori andando a risentire, però, sempre quel tono di voce, senza il quale la mia pagina è muta. Non trovo né l’aggettivo né il sostantivo giusto: devo trovare il tono di voce.

Il tono di voce come memoria…

Si…

Una memoria anche nel senso di costruzione di un’identità?

La memoria non è un archivio, non è una collezione, non è un album di figurine. E’ quel rimasuglio che rimane trattenuto da qualche parte. Nel mio caso io non sono neanche il proprietario della mia memoria, e non posso andarla a consultare quando mi pare. Ogni tanto la memoria mi rilascia qualche dettaglio trascurato, dimenticato; allora, intorno a quel dettaglio posso ricostruire l’intero. Intorno a quell’osso posso ricostruire tutto lo scheletro mancante del dinosauro, perché l’ho visto il dinosauro; allora, siccome me lo sono dimenticato, quando ritrovo un osso della coda, poi da lì posso partire per ricostruirlo. La scrittura è abbastanza visionaria, riesce a fare questo, insomma. Per me la memoria è un innesco della ricostruzione di un tempo passato, che mi permette di stare di nuovo insieme con le persone che ho perduto. In genere per me la scrittura è un modo per tenermi compagnia. La migliore che ho conosciuto.

Un’altra cosa che si nota leggendo le sue opere è la ricchezza di linguaggio. Questo può essere dovuto anche al fatto che, tra le varie forme dialettali italiane, il napoletano è una tra le più ricche?

In genere l’italiano è bello perché è alluvionale, cioè sta in fondo all’affluenza dei dialetti. E’ una lingua che si è arricchita dell’abbondanza di dialetti, che lo hanno reso bello, vario. E’ una bella lingua per questo. Ma il mio vocabolario credo dipenda dal fatto che faccio traduzioni. Quando uno traduce per ammirazione, e perché ama quella lingua o quella storia, o quella scrittura di quella lingua, allora sforza la propria lingua a essere precisa, a essere quella, la più fedele possibile. Ecco, questo esercizio di precisione, spinto sempre però da un sentimento di ammirazione, permette di radicarsi nel proprio vocabolario, nel vocabolario della propria lingua; di essere un proprietario della lingua, e non un cliente. Quando qualcuno mi chiede, a proposito, come si fa a diventare scrittore, io rispondo tranquillamente: diventando prima traduttori. Ma non per mestiere, perché allora lì si è costretti per forza ad andare di fretta per consegnare il compito e quante più cartelle possibile per guadagnar qualcosa, perché i traduttori comunque guadagnano poco. No, tradurre per propria passione, tradurre anche scrittori infinitamente noti, tradurre anche Shakespeare, per dire, ma tradurre da sé, per essere il più preciso possibile, per trasportare il testo, nella maniera più illesa possibile, nella propria lingua. Questo permette di disporre di un vocabolario: la traduzione.

Lei tra l’altro ha scelto anche di appropriarsi di lingue non proprio facili da fruire, e di tradurre alcune parti dell’Antico Testamento.

Si, ho tradotto da diverse lingue, ma a me non importa parlare quelle lingue, mi importa saperle leggere, riuscire a leggerle. Non voglio parlare con Mosè, insomma. Voglio leggere la storia, e la posso tradurre, con un accanimento di fedeltà che non trovo in nessuna delle traduzioni di quella scrittura sacra, che sono tutte traduzioni a uso religioso.

Quindi in qualche modo addomesticate?

Non addomesticate, sono traduzioni che considerano l’ebraico antico una specie di materia grezza, un petrolio grezzo che poi viene raffinato successivamente, dalla rivelazione seguente. Il cristianesimo vuol essere la raffineria dell’Antico Testamento, e quindi c’è un rapporto di scarsa attenzione, perché comunque è un prodotto considerato imperfetto, impreciso, sommario, una lingua minore. Il Concilio di Trento decide che è canonica, santa, sacrosanta, la traduzione di San Tommaso: come se uno dicesse che una storia di pastori sardi ha la sua formula precisa scritta in inglese, che quello è il suo vero formato e la lingua  che parlavano quei pastori sardi era una lingua insignificante, della quale non tenere conto. Con l’ebraico antico è andata così. Poi ho tradotto anche dallo yiddish, una lingua che non si può parlare con nessuno, tranne scambiare qualche battuta con qualche vecchio a Tel Aviv. Oppure ho tradotto qualcosa dallo spagnolo, dal tedesco, dal russo. Però non ho bisogno di parlarle quelle lingue: mi basta leggerle.

Per percepirne il tono?

Non lo so. Non credo che c’entri il tono, perché non è un apprendimento acustico, non è un apprendimento che sento dalla voce: lo apprendo dalle parole, dalle parole scritte. Manca completamente la trasmissione a voce. Se lo ricevessi a voce sarei anche capace di ripeterlo, di parlarlo; invece no, io non sono capace di parlare quelle lingue. Le leggo soltanto.

Su “Alzaia” lei scrive: “Cerco nei libri la lettera, anche solo la frase che è stata scritta per me e che perciò sottolineo, ricopio, estraggo e porto via. Non mi basta che il libro sia avvincente, celebrato, né che sia un classico: se non sono anch’io un pezzo dell’idiota di Dostoevskij, la mia lettura è vana”…

La letteratura, infatti, si vuole strusciare vicino al lettore, vuole tirarlo dentro, catturarne l’attenzione, farlo partecipare della storia. Questo è il suo gioco, e quella buona ci riesce. In un libro ciascuno trova qualcosa che è stato scritto per lui. Capita anche qualcosa che lui sapeva di sé ma che non aveva ancora trovato scritto, non aveva ancora trovato la formula per dirlo, per farlo emergere alla coscienza; quindi, quando lo legge, anche se è la prima volta che legge quella notizia di sé, la riconosce. E’ un atto secondo, insomma: non semplicemente la conosce, ma direttamente la riconosce. E questo è il gioco della letteratura. Io mi sono trovato buona compagnia con la letteratura, e quindi di queste occasioni di immedesimazione me ne sono capitate molte. Ma questo è l’unico motivo per cui un libro mi resta in mano. Se non fa questo gioco, anche se è solennissimo, come certi libri di Joyce, per me quel libro è inerte, può rimanere lì dov’è, mi cade di mano. Quindi conservo delle ignoranze, delle insofferenze letterarie che sono molto più grandi di quello che conosco. Dei buchi che sono più grandi del formaggio.

Non si può leggere di tutto, tocca operare delle scelte…

No, si può provare a leggere tutto, ma io non sono capace di leggere nemmeno quello che mi capita sotto le mani, perché la gran parte delle volte è una materia per me inerte quella narrativa che ho sotto gli occhi, o quella poesia. La lascio cadere.

Un aspetto che mi sembra molto importante nelle sue opere è la leggibilità. C’è una scelta molto precisa delle parole, che sono cesellate in maniera straordinaria, ma restano sempre leggibili da chiunque.

Questo l’abbiamo già detto, riguarda il tono di voce: se quello funziona, funziona tutto. E’ leggibile perché ascoltabile.

Lei ha detto che nelle famiglie non c’è più nessuno che racconti delle storie. Sembra che la generazione dei nostri padri abbia perso quello che, invece, ha ricevuto.
Eppure, questi padri crescono negli anni del ’68, anni di fermento politico e culturale, anni densi di storia; tuttavia, ad un certo punto, quel periodo è rimasto muto, come se fosse sbagliato consegnarne la storia. Tant’è che quella storia non è diventata patrimonio delle generazioni successive, nemmeno nei racconti “di famiglia”. Perché, visto che lei quegli anni li ha vissuti? Che cosa è accaduto a chi doveva farsi testimone?

E’ accaduta una reticenza di massa da parte di una generazione politica che è stata fisicamente, militarmente vinta, quindi ha taciuto.

Lei dice, sempre ne “Il contrario di uno”, che non ha preso distanza dalle idee, prende distanza dalla lotta militare, cioè da un confronto che era diventato soltanto uno scontro militare e, perciò, dalla possibilità che quegli anni si riducessero esclusivamente a quello. Eppure gli anni settanta non sono solo la lotta armata, ma anche anni di un grande movimento culturale che, però, sembra improvvisamente svanito.

Eh, è svanito. Quei tempi sono svaniti, non ci trovo niente di strano.

Lei crede che i movimenti di oggi potrebbero portare nuovo fermento?

Sono movimenti a ricarico di scadenze altrui, non hanno una vitalità propria. C’è una scadenza altrui e allora vanno a brontolarci intorno, ma non sono movimenti che consistono in se stessi: consistono nel momento di aggregazione dovuto alla circostanza imposta, alla scadenza esterna. Tant’è che basta spostare la sede dell’appuntamento, che non c’è più niente.

Mi pare che la presa di coscienza che può avvenire nel presente poggi sulla comprensione del passato, quindi sulla memoria, sull’appartenenza, sulle radici.

Ma, guardi, la mia appartenenza è che sono uno di Napoli che se n’è andato di lì. Sono stato un rivoluzionario che ha perduto la propria battaglia, quindi, come appartenenza, ho poco da rivendicare. Ho appartenuto e ne sono fuori, da quelle appartenenze. Fanno parte della mia materia narrativa. Non spiegano niente, se non il racconto di quella circostanza.

Scrivere è anche un modo per mantenere le storie, tramandare la storia?

No, i libri durano cinque minuti, non tramandano un accidente, i libri. Sono più effimeri dei giornali. Non tengono niente, è carta.

Però ci sono libri che restano, libri che si leggono ancora dopo decenni.

Si, su 30.000 titoli all’anno, quindi su alcune centinaia di migliaia di titoli a decennio, forse due o tre restano.

Una volta si pubblicava molto meno, però…

C’erano molti meno lettori.

Forse c’erano anche autori un po’ più incisivi.

Non mi pare: la letteratura italiana del dopoguerra era scadente come quella di adesso. Era minore, poco significativa rispetto a quello che si pubblicava in giro per il mondo. Era poco importante.

Non pensa che il sovrannumero di pubblicazioni attuali possa influire su questo?

No, è solo un fatto commerciale, di occupazione spazi da parte delle case editrici.

Eppure lei scrive per…

Mi tengo compagnia.

E tiene compagnia anche ai lettori che la leggono?

Questo è un buon effetto secondario. Se succede, meglio per me; e anche meglio per il lettore, che non ha buttato via i quattrini dell’acquisto.

Nel momento in cui lei risente il tono, rivive il tono, e riesce a trasmetterli all’interno della scrittura, in qualche modo è come se condividesse, se facesse un dono; nel senso che, quando si riesce ad essere emozionati, o comunque a sentirsi partecipi, identificandosi, si riceve qualcosa.

Si, è uno scambio, uno scambio che avviene a distanza e di cui io non ho nessuna nozione, notizia, tranne quando qualcuno mi dice “si, ho letto quel libro e mi è piaciuta quella frase”, o quella virgola, o quel momento. E’ uno scambio a distanza di cui non ho alcun controllo. Tutto quello che posso fare è sapere che quelle pagine meglio di così non le so scrivere; poi, per il resto, non posso controllare, né decidere dove vanno a finire e in quale modo vengono accolte.

Eppure lei dice che i toni grazie ai quali scrive li ha ricevuti dall’oralità dei racconti che le sono stati portati…

No, quello è uno sbriciolare quell’immensità come tutte le volte che si scrive, tutte le volte che la scrittura interviene per fissare qualcosa del passato, perché tutto quel passato, quella voce, si sta perdendo, è perduta, e ne restano dei rimasugli, scritti. Poi quei rimasugli scritti hanno la pretesa di sostituire tutto quello che è stato detto, pronunciato, tutta la vita precedente. Ma comunque è un abuso di confidenza con l’immensità della vita. Si strappano rimasugli.

Ritornando al suo uso del linguaggio, che è molto ricco e preciso, lei mi sembra da un certo punto di vista in controtendenza; nella maggior parte degli autori contemporanei noto un linguaggio sempre più appiattito, sempre meno variegato.

Non lo so, io non leggo, quindi non so dire. Non so rispondere su questo. Non leggo quello che fanno gli altri, io leggo libri vecchi, libri scaduti. Insomma, non leggo quello che c’è in circolazione adesso. Aspetto che invecchi.

Volevo proporle una frase dello scrittore turco Yashar Kemal: “Se la gente di un paese vuole vivere bene e felice prima deve rispettare e fare propri i valori universali, e garantire la libertà di pensiero senza confini. […] La ricchezza culturale del nostro paese è nelle nostre mani”.

Che esagerazioni! Solenni, generiche, compiti che i letterati credono che gli siano stati affidati da qualcuno, o dal fatto che pubblicano dei libri. Una sopravvalutazione dell’usato.

Lei scrive anche che lo “scrittore dev’essere più piccolo della materia che racconta”.

Si immagini se Tolstoj era più grande della materia che raccontava! Più grande di “Guerra e pace”, più grande di quell’epopea gigantesca tra francesi, russi, europei. Era più piccolo, no? Per questo quella storia è così grandiosa, perché lui è più piccolo di quella storia: ne prende solo un dettaglio, ne racconta un frammento, e da quel frammento si può ingrandire e capire, fiutare, accorgersi di che tempo è stato. Rappresentarlo per intero… sempre con quella pretesa del rimasuglio che fa pregno sull’intero, sulla vita svolta.

Più piccolo dell’immensità della vita.

Eh, certo.

La vita di qualsiasi persona è inenarrabile…

Si.

Quindi anche quel senso di umiltà che è importante che uno scrittore abbia quando verga le sue righe?

Mah, non lo so se lo scrittore è umile; magari può anche essere molto ambizioso, e la sua ambizione può coincidere con l’umiltà, perché l’essere ambizioso vuol dire anche pensare come descrivere, pensare che quella pagina meglio di così non la so scrivere, e quindi riuscire a mantenere l’ambizione di spremere il meglio da me stesso. Le ambizioni e le umiltà si mischiano, non è francescana, la scrittura.

Molti dei suoi racconti e romanzi sembrano lezioni di vita. Quando chiudo il libro mi sembra di aver vissuto un’esperienza, non semplicemente di aver letto un libro. Anche questo è dovuto al suo raccontare storie di vita ascoltate?

Racconto pezzi di vita svolta. Non la devo costruire, non la devo fabbricare, non ci devo mettere niente della mia immaginazione. Comunque la infetterebbe, vorrebbe dimostrare qualcosa, vorrebbe tirare acqua a qualche mulino, a qualche ragionamento, a qualche tesi. Non ce l’ho la tesi: racconto la vita svolta e un mucchio di cose che capita improvvisamente addosso alle persone. Insomma, sempre dentro a questo Millenovecento, che è stato un secolo di storia maggiore che è andata a schiacciare le storie minori, a separare figli da padri, mariti da mogli, popoli da suolo. Il Millenovecento è stato un secolo ingombrante, molto invasivo. Io racconto delle storie piccole del Millenovecento, storie che non hanno nessuna lezione da trasmettere: sono solo storie. Non c’è nessuna formazione in queste vite, nessun progetto, nessuna edilizia: c’è una resistenza alla deformazione.

Una testimonianza, in qualche modo?

Ma i testimoni non capiscono niente. I testimoni sono quelli che ci capiscono meno di tutti, perché si trovano in mezzo al guaio e non hanno preso nessun biglietto per essere stati invitati alla rappresentazione: si trovano in mezzo alla mischia, tra capo e collo gli capita l’accidente intorno e non capiscono niente. Solo molto dopo sanno ciò che hanno visto. Il testimone è inaffidabile per definizione, perché è un malcapitato.

 

 

Leggi la recensione di “Il giorno prima della felicità”

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