La cultura scomoda – Intervista a Moni Ovadia

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Moni Ovadia, gentile, disponibilissimo, ci ha permeso di fargli un’intervista in due parti, ed allo steso modo abbiamo deciso di presentarla su queste pagine. Concludiamo quindi la pubblicazione dell’intervista iniziata lo scorso numero.

Lei pensa che in Italia sia possibile riappropriarci della nostra cultura?

Io penso di sì. Quando avremo toccato il fondo. Evidentemente non abbiamo capito, questa volta, quanto è profondo. È profondo quanto la Fossa delle Marianne. Gli italiani, e anche parte dell’opposizione, hanno lasciato sfregiare la democrazia italiana, permettendo ad una specie di caudillo di governare il Paese sulla base dei suoi interessi, della sua demagogia populista.

È una vergogna. Io credo che le future generazioni verranno a sputare sulle nostre tombe, per averlo permesso.

A questo proposito mi viene in mente una frase di Clio Pizzingrilli: “Occorre trovare un sistema per sbarazzarsi dei carnefici, che però non abbia nulla da spartire con la vigente messa-a-morte, appannaggio dei carnefici medesimi. Questo dà da pensare. In fin dei conti è proprio sul modo di sbarazzarsi dei carnefici che si gioca lo scacco”.

Noi dobbiamo capire una cosa, per arrivare a questo: che la democrazia è un processo. Tutti i processi devono essere costantemente riattivati. Se noi pensiamo che la democrazia è un dono dall’alto, che non è una conquista che va difesa, come la salute, la perderemo. La democrazia è come la salute di un corpo: non è data per sempre.

Se tu la salute non te la conservi, la perdi; così la democrazia. E noi l’abbiamo persa, perché abbiamo lasciato che la malattia avesse il sopravvento su di noi. Non abbiamo fatto la profilassi. Non abbiamo utilizzato i farmaci. E ancora adesso, che è quasi in metastasi, facciamo finta di niente.

Sembra quasi che non ce ne si accorga…

No, perché mantenere la saluta implica rinunce, trainings, attenzione costante: fatica. Quello italiano è un popolo che ha vastissime aree di qualunquismo. Il qualunquista non vuole faticare mai, e anche pensare è fatica: pensi qualcun altro per me.

Ho rivisto per l’ennesima volta, lo rivedo ogni volta che lo passano in televisione, “La parola ai giurati”, di Sidney Lumet, uno strepitoso film a basso budget che si svolge tutto in una sala dove i giurati devono decidere della vita di un giovane che, a tutte le evidenze, sembra colpevole; ma, grazie alla caparbietà di un solo uomo perbene, il giovane verrà assolto, perché si capisce, in realtà, che le prove e gli indizi sono pieni di lacune.

Uno dei giurati che poi, grazie a questo uomo coraggioso e civile, capirà, ad un certo punto, mentre si lavano le mani nel bagno, gli chiede: “Ma lei non ragiona mai sulle cose?”, e questo risponde di sì. E l’altro dice: “Io lascio che sia il mio capo a ragionare, io lavoro”. Ecco quello che è caratteristica di troppi italiani.

La gran parte della classe dirigente di questo Paese non ha voluto bene alla sua gente. Si è accontentata molto più di retorica che di controllare che lo stato della democrazia fosse diffuso. Perché c’è gente nel nostro Paese, troppa, che non sa neanche cos’è la Costituzione repubblicana. Ebbi modo di constatarlo facendo il commissario d’esame. Per diritto, perché io sono laureato in scienze politiche.

Quando vennero da me i privatisti di Padova, siccome provavo grande pena per la loro stanchezza -mi ricordavo di me, quando all’epoca della maturità ero sfinito-, mi dissi: farò delle domande facili, che m’importa se sanno cos’è una cambiale? Questo non è importante. L’importante è che siano dei buoni cittadini: vediamo come va col diritto pubblico. E allora feci domande di questo tipo, bastava leggere i giornali: domandai a questi privatisti di Padova chi fa le leggi nel nostro Paese.

Da alcuni di loro mi sentii rispondere: il Presidente della  Repubblica. Questa gente andava a votare!
Io ho una proposta di legge per il futuro: che non importa se non si sa la matematica o la fisica, il latino o le scienze, ma che non si possa uscire dalla scuola dell’obbligo senza sapere a memoria la prima parte della Costituzione – a memoria e commentata con parole proprie – e senza sapere la carta dei diritti universali dell’uomo di Ginevra, e di Parigi, a memoria e commentata con parole proprie.

Se non la sai, non esci dalla scuola dell’obbligo, che significa che non vai a lavorare e non prendi la patente. Questo permetterebbe di avere dei cittadini veri. Non si potrebbe farla retroattiva, non possiamo pretendere che un uomo di cinquant’anni torni a studiare queste cose, però, se fosse per me che sono giacobino, farei anche questo.

Cominciando come fa Gherardo Colombo, che ha scritto una Costituzione per bambini degli asili e delle elementari, in modo che i bimbi vadano a casa e, quando vedono il proprio padre compiere atti incostituzionali, siano i primi a dirgli: “papà, ma questo non si fa, perché nel nostro Paese è legge”. Si immagina l’effetto? Se questo fosse obbligo scolare, per gli asili, fino alla fine del corso studiorum, avrebbe un impatto enorme sulle coscienze.

Lei pensa che l’arte possa cambiare qualcosa?

L’arte può svolgere un ruolo estremamente importante se, naturalmente, il Paese investe sull’arte. Permette di capire, di fare.

Quindi lei ritiene che attraverso la cultura si possano trovare possibilità di cambiamento?

Senza cultura noi non siamo niente. La cultura è conoscenza e, siccome lo specifico dell’uomo è lavorare e conoscere, senza l’aspetto della conoscenza rimane solo il lavoro, che, senza l’elemento della conoscenza e della crescita, della formazione di relazioni col mondo e con se stessi e col prossimo, diventa un lavoro schiavistico, servile.

Come nel citato articolo 1 della Costituzione, dove, a guardare bene i fatti, bisognerebbe sostituire la parola “lavoro” con la parola “sfruttamento”…

E certo… Sfruttamento, raggiro, quelle cose lì, perché poi, insomma, il lavoro, il precariato… Ogni volta che parlano c’è questo cosiddetto turbo-capitalismo, che ha dimostrato la sua infamia, la sua inefficienza, si è permesso per lustri e lustri di dire flessibilità, elasticità, licenziamento: è una vergogna.

Con un camuffamento del senso delle parole in cui flessibilità significa in realtà precariato…

Eh, certo…

Però mi sembra che, in Italia specialmente, si stia cercando, da molte parti, di affossare in tutti i modi possibili la cultura…

Sì, per forza, perché dà fastidio al potere. Perché la cultura è critica, e un potere così mediocre come quello che abbiamo noi non può confrontarsi con la cultura, perché non ha strumenti. Allora cerca di abbassare il livello, di distruggere i livelli più alti per poter, in qualche modo, almeno far credere che capisce qualcosa.

La televisione ha contribuito a questo abbassamento, secondo lei?

La televisione ha creato una vera devastazione, da quando è sceso in campo Berlusconi. La televisione commerciale. Già la RAI non era proprio il massimo, ma, insomma, noi ascoltavamo per ore parlare Pasolini, in RAI, non ci sono confronti. Adesso il 99% è un totale schifo, tranne preziose eccezioni come la Gabanelli, ma siamo al 5% della televisione.

L’arte può fare qualcosa in questo senso, in potenza?

Si, l’arte ha il formidabile strumento della pietas. Parlo, per esempio, del teatro. Il teatro, per convenzione, accetta di essere finto, ed è proprio grazie a questa convenzione che, non essendo pericolosa, è stato possibile dire la verità.

L’arte può dire la verità, perché è un linguaggio trasfigurato che non pretende di avere la verità divina, ma una capacità di trasfigurare le relazioni, e permette di affrontare i temi più terribili entrandoci in relazione, senza rimanerne distrutti. Però bisogna che gli artisti sappiano questo loro ruolo.

Oltre a se stesso, lei vede nel panorama italiano qualche altro artista che porti avanti un discorso di questo tipo?

Ma certo che ce ne sono, ci sono teatranti e anche poeti, letterati e scrittori, gente di prim’ordine che fa questa cosa.

Purtroppo le loro voci sono soffocate o molto marginalizzate. Potrei parlare di me, non che io sia così importante, ma giusto per fare un esempio: io in certe trasmissioni televisive non ci vado, e ad altre non ho accesso, perché mi tengono lontano.

Eppure, nonostante la televisizzazione anche della comicità, spettacoli come i suoi riescono ad ottenere un buon successo anche se portano avanti una comicità molto più raffinata, che richiede pazienza, ascolto e comunque un certo impegno.

Io sono stato anche fortunato, da un certo punto di vista: ho avuto grande appoggio da parte della stampa migliore, ma anche dalla stampa locale, e a volte anche in radio e in televisione, è fuori discussione. Poi sono stato molto accanito nel non lasciarmi intimidire, nel non ascoltare le sirene del cosiddetto “ah, ma il pubblico vuole questo, vuole quell’altro”: tutte sciocchezze.

Contano molto meno di quello che i cosiddetti soloni dell’informazione e del linguaggio dello spettacolo vogliano far credere. Io ho creduto, il pubblico mi ha premiato, però non ho un uditorio che mi permetta di parlare a milioni di persone con il mio linguaggio.

Ma prendiamo Dario Fo, un artista supremo, o altri: siamo relativamente marginalizzati. La scena è tenuta dai grandi fratelli, dalle isole dei famosi, dagli stupidi talk-show che ripetono uno schema noioso, mortifero, ma che evidentemente fanno audience perché si è progressivamente abbassato il livello della percezione, della fruizione; così, naturalmente, gli spettacoli di infimo livello guadagnano grandi ascolti.

Secondo lei, l’arte può avere ancora un potere rivoluzionario?

Potrebbe, potrebbe avere una funzione rivoluzionaria. Perché non è un caso che i grandi artefici della satira vengano emarginati dalla televisione.

Vuol dire che il potere ne ha ancora paura. Lo strumento artistico, con la sua capacità di esporre iperboli, di trasfigurare colpendo nel segno, rendendo il re nudo, potrebbe eccome avere una funzione rivoluzionaria.

Naturalmente il fare artistico è escluso dai grandi palcoscenici, è relegato a piccoli pubblici. Per quanto grandi, sono sempre piccoli.

Lei, citando un famoso detto, ha parlato di “re nudo”. Questo mi porta anche a pensare a un altro tempo, in Italia. Lei cosa pensa del Sessantotto e degli anni immediatamente successivi?

Da un certo punto di vista è stata una stagione molto galvanizzante, aveva in sé embrioni di ricerca, di voglia di innovare, di rompere pregiudizi e schemi.

Da un altro punto di vista poi, in realtà, è stato minorato da se stesso, perché sono rimasti gli aspetti più corrivi, quelli di costume: il Sessantotto è stato un microbo per far entrare il neocapitalismo con la sua diffusione di ciarpame, cioè la cultura di massa.

Quindi, il Sessantotto non ha compiuto se stesso, in realtà: è stato inghiottito prima. Non è un caso che un numero impressionante di sessantottini sono finiti nelle file delle formazioni più conservatrici e reazionarie.

Il fatto che, con l’informazione molto pilotata che abbiamo, nell’immaginario collettivo il Sessantotto sia confuso con gli Anni di Piombo, non significa un timore di quella possibilità?

Questa è una squallida operazione per liquidare gli aspetti dirompenti del fenomeno. Cosa chiedeva il Sessantotto? Intanto chiedeva che il sapere fosse a disposizione di tutti, che non fosse più un sapere di nicchia e di casta, e questo sicuramente rimane un valore.

Chiedeva libertà civili, chiedeva l’immaginazione al potere, cioè come dire: basta con il potere, con i suoi meccanismi autoreferenziali, il potere dev’essere nelle mani degli esseri umani, dei cittadini, che devono avere la libertà di trasformare la società e il mondo in una direzione di democrazia non formale, ma di democrazia sostanziale, di uguaglianza, di pari dignità. È chiaro che queste cose, siccome sono sempre pericolose e dirompenti, se vengono identificate con il terrorismo allora si può cancellare anche il resto.

È un po’ come la rivoluzione bolscevica: ci si è quasi dimenticati che lo zar era un tagliagole e che la Russia era un paese feudale. Allora, certo che la rivoluzione bolscevica si è trasformata nell’incubo staliniano, però ha posto delle grandi domande, ha sollecitato grandi passioni.

È stato un sogno immenso, sognato da grandi uomini, che poi sono diventati vittime del loro stesso sogno, ma, insomma, il comunismo non è stato solo Stalin, è stato molte cose. Ma si dice che è stato Stalin, così lo si può cancellare, cancellando anche  le domande che pone, che sono domande ancora scomode.

Per esempio, noi abbiamo una democrazia sedicente, perché lei vede come sono ipocriti e schifosi; nel senso che noi siamo arrivati a un regime doppio: per noi poveri cittadini c’è il libero mercato, che ha il pieno arbitrio di fregarci, di raggirarci, con  i meccanismi dell’uso spregiudicato della gestione dei prezzi, di false pubblicità, di ignobili posizioni di privilegio com’è nelle grandi corporation.

Pensi solo alle telecomunicazioni: fanno quello che vogliono. Se una legge come lo Shurman Antitrust Act, fatto negli Stati Uniti per mitigare il capitalismo, fosse fatta da noi in Europa, forse ci avvicineremmo a una vera democrazia. E invece fanno i monopoli, fanno i cartelli, raggirano, se ne vedono di tutti i colori.

Ecco, per noi c’è il libero mercato, ma per le grandi corporation c’è il socialismo, perché sono in piedi solo perché gli dà i soldi lo Stato.

Pensi che ieri sono andato a Locarno a trovare un caro amico svizzero, il quale mi ha detto che l’Union de Banques Suisses, la più grande banca svizzera, ha fatto bancarotta. La UBS, che aveva come proprio reddito sei volte il PIL svizzero, ha fatto bancarotta fraudolenta. Lo Stato svizzero, per impedire il disastro, ha voluto dare 60 miliardi di euro a una banca che ne valeva 30.

Sono dei poveracci, dicono che il lavoro costa troppo, però quando loro combinano disastri allora no, gli si devono dare i soldi. Siamo al di là di ogni decenza. Almeno Barak Obama, che è un grande Presidente, ha detto: tutti i manager a casa. Chi è colpevole del disastro va via. Che è un minimo di decenza.

E poi ha parlato della difesa del lavoro, “a patto che si difenda il lavoro”, finalmente! Ma il sistema capitalistico, del turbo-capitalismo, non è disposto ad andare verso una società collettivista.
Io penso che una dinamica di mercato vada bene, ma dentro una società di tipo socialista, dove lo Stato interviene a correggere le storture, a difendere i lavoratori; permette agli imprenditori di fare il loro legittimo guadagno, ma impedisce loro di speculare, di arricchirsi sulla pelle della povera gente; una sorta di socialdemocrazia, per lo meno.

Ebbene, Barak Obama si è mosso, in qualche modo, in questa direzione, perché il grande mito del capitalismo di Milton Freeman, dei Chicago Boys, il capitalismo che produce ricchezza, è una bufala, la più grande bufala della Storia. Però hanno fatto quello che hanno voluto, mentre quello che meritavano era di morire di fame.

Sono capace anch’io di distruggere le aziende, se mi pagano come pagano loro. Non ci vuol niente a distruggere le aziende, anzi, forse lo faccio in un tempo più veloce, così si va ai conti.

Secondo lei questi manager saranno gente che vive in appartamenti di 60 metri quadri? Hanno le loro ville, le piscine, il golf…! E poi dicono che il capitalismo stimola la concorrenza, il merito: bugie su bugie su bugie.

Però, purtroppo, il rimbesuimento attraverso i media, attraverso l’uso della cultura di massa, è riuscito talmente a spogliare gli esseri umani della loro capacità di capire, che non c’è stata una vera ribellione.

Ho sentito di questa operazione di Marchionne, che invece è un manager capace, per quanto anche la FIAT abbia assorbito delle voragini di denaro. Lo Stato nazionale, come dice Sigmund Bauman, ha perso la sua funzione, e anche lottare per lo stato sociale nazionale è una perdita di tempo: bisogna cominciare a combattere per il pianeta sociale.

Mentre le corporation internazionali fanno le cosiddette merger, le fusioni, cioè FIAT sta facendo la fusione con Chrysler per andare a fare la fusione poi con la Opel, i lavoratori dei diversi Paesi, gli operai e i sindacati italiani, tedeschi e statunitensi dovrebbero fare un grande sindacato sovrannazionale, per curare gli interessi di tutti, non i tedeschi e gli statunitensi contro gli italiani, gli uni contro gli altri. Difendiamoci tutti insieme, facciamo qualcosa.

La sinistra ha perso il trono, la sinistra si è occupata di questioni di lana caprina invece di occuparsi dei veri problemi. Si è divisa, la falce e il martello, “io sono più a sinistra, tu sei più a destra”, dicendo di fare gli interessi della classe operaia, ma in realtà non ha saputo portare avanti strategie di grande respiro, significative.

Purtroppo non ci sono reazioni adeguate da parte della popolazione…

Ma lei non ha visto? Questa crisi gli ha mangiato i risparmi, la gente è scesa in piazza. Adesso non dico di fare la rivoluzione, ma insomma, pensavo: scenderanno a milioni, occuperanno le piazze, a dire “fino a quando non ci date ragione di quello che ci avete fatto noi non ci muoviamo di qui”.

No, ci sono due sindacati che hanno fatto degli accordi vergognosi. L’unico sindacato in Italia degno di questo nome è la CGIL, che è però in condizioni di isolamento. Capisce a che livello di schifo siamo?

Non sarà che, come è accaduto a gran parte della popolazione italiana, anche i partiti hanno perduto quella che è la propria identità, e quindi un’appartenenza?

Beh, ma già mi colpisce che una destra populista, avventurista, guidata da un padrone il quale si è arricchito progressivamente, non faccia ragionare la gente. Noi siamo paradossalmente quasi peggio che ai tempi del fascismo: peggio, perché il fascismo c’è stato. Noi siamo qui con le pezze al culo e quello lì non fa altro che arricchirsi: quello ci sta fottendo, come si fa a non capirlo?

Fa impressione, un uomo poco serio, che fa fare una figura meschina al Paese, però perché? Perché le sinistre si sono anche loro corrotte alla comoda vita dei politici: nessuno paga più niente. Il politico che perde le elezioni dovrebbe andare a casa. Eh caspita, ragazzi, siete la classe politica che nel bilancio di dieci anni non ha combinato niente. A casa! Tutti a casa!

Questo avverrebbe anche in un’azienda seria…

Eh, ma di aziende serie non ce ne sono mica tante. Quelli che hanno combinato disastri sono andati a far disastri in altre aziende, con liquidazioni principesche.

Non solo: ci sono politici che, dopo aver lasciato la politica, diventano manager di aziende.

Si, ma Jospin è tornato fare il professore, e Kohl… chi l’ha più sentito, Kohl? È stato un enorme statista. Naturalmente per me è sempre stato un avversario, ma mi levo il cappello di fronte all’uomo. È quello che ha seguito l’unificazione tedesca, è un anello importante della storia del suo Paese.

Poi, per una cosa veniale, per non aver rivelato la fonte di un finanziamento… finito, basta! Nessuno ne parla più. In Italia l’avrebbero promosso, sarebbe stato Presidente della Repubblica Federale e poi sarebbe diventato Papa.

Noi viviamo in una strana apparenza, perché sembra che, oggi come oggi, non ci sia più censura, mentre in realtà mi sembra che sia semplicemente più subdola, più indiretta…

Ma non è vero che non c’è censura: c’è un’apparente situazione, ma dove vogliono colpire, non fare sentire, colpiscono. Lei sa che il Corriere della Sera non riportava la notizia del divorzio di Berlusconi? La richiesta di divorzio di sua moglie non c’era sul Corriere della Sera.

A volte, infatti, basta tacere per non far passare un’informazione.

Ma com’è possibile, il Presidente del consiglio non dà una notizia, che è fatta anche di gossip, di cronaca, di quello che vuoi, ma non passa la notizia che la moglie ha chiesto il divorzio dopo la gazzarra ignobile delle veline della festa, la diciottenne che lo chiama “papi”.

Un uomo che in questo Paese piace alle mamme, alle mogli, alla famiglia e che ha umiliato sua moglie. Ha umiliato i figli della sua prima moglie, che sono suoi figli. Non lo so, c’è in Italia una popolazione totalmente narcotizzata, incapace di vedere, come se fossero ciechi, sordi, muti. Il grande Majakovskij diceva: “Non siamo schiavi, gli schiavi sono muti”. Ma purtroppo sembra che non sia così.

Secondo lei è passato quel pensiero secondo il quale l’importante, anche per un’opera d’arte, per qualsiasi cosa, è semplicemente che renda in termini economici?

Non è neanche questo, perché quando devono dare i soldi ai loro amici incapaci glieli danno, glieli trovano. Hanno un’idea della resa mercantile che è totalmente idiota, perché oggi noi non avremmo la Cappella Sistina, né le opere di Michelangelo, né il Bernini, né niente, se avessero pensato al guadagno, alla resa.

E quindi un Paese come l’Italia, che pratica questa politica, merita che le sue opere d’arte vengano alienate e date ai giapponesi, agli spagnoli, a gente che ne farebbe miglior uso. Perché dire una cosa del genere è da idioti, proprio.

Pretendere che la redditività detti legge. Per un prodotto al pubblico, la redditività è la lunga durata. Per esempio, l’Italia ha una sorta di vantaggio nel campo della moda, ma quel vantaggio, quello del leggendario gusto italiano, è stato creato anche da Fellini, dal mito dell’Italia, della sua commedia dell’arte. Anche questo gioca per portare l’Italia in una posizione di eccellenza.

Secondo lei, un artista che si sia completamente assoggettato alle regole di mercato, è ancora un artista?

Io non posso dire che Picasso non sia stato un artista, perché dicevano delle battute terribili quando gli chiedevano come mai avesse fatto dei dipinti molto somiglianti, e lui diceva: per soldi. Un grande artista può anche decidere di usare la sua arte per fare denaro.

Io non credo ai miti, sa, l’arte, il talento straordinario, però certo noi ricordiamo Picasso per ben altre cose che non perché ha venduto molti quadri. Lo ricordiamo per il leggendario “Guernica”, lo ricordiamo per il suo impegno civile.

E anche per i suoi dipinti che rappresentano il travaglio dell’uomo. Non è che Picasso abbia ritratto il ricco con la figlia ricca che sullo yacht sguazzano nel denaro e nell’ozio. Non mi sembra. Non può essere oggetto dell’arte, e quindi è molto difficile che un artista possa vivere per soldi. Può farlo, ma può farlo lui, non può farlo la sua arte.

Un progetto artistico, sia in teatro, che in letteratura, che nella pittura o in qualsiasi altro campo, è o dovrebbe essere anche un progetto di vita, secondo lei?

Per quello che riguarda me, sì. Per quello che attiene al mio modo è sempre una relazione con le grandi tematiche umane, con i grandi travagli: è un modo per capire l’uomo, per capire il suo destino e per permettere all’uomo stesso, attraverso la restituzione della trasfigurazione artistica, di capirsi e di potersi anche reinventare. Io credo che un grande spettacolo possa cambiare una vita intera, così come un grande dipinto e un grande libro.

Come dicevamo prima, in Italia dovremmo essere privilegiati per il fatto che viviamo in un Paese che ha grandi tradizioni, radici profonde e una lingua ricca, molto sfaccettata, feconda di sfumature; come mai allora, secondo lei, il linguaggio medio non solo delle persone, ma anche di molti scrittori, si è irrimediabilmente appiattito?

L’impoverimento del linguaggio corrisponde all’impoverimento della società. La società di massa ha bisogno di linguaggi standardizzati, schematici. Tutta la società ne risente, e lo scrittore non può usare un linguaggio sofisticato perché non ha un pubblico che lo capisca.

E allora la scoperta di un linguaggio nervoso, veloce può essere un vantaggio, ma spesso è un impoverimento, come la perdita dei tanti dialetti e della loro ricchezza, che sono impoverimenti perché la società di massa, dal punto di vista della cultura, è una società devastante.

Insomma, chi va con lo zoppo impara a zoppicare, come dice il noto proverbio…

Ma sì, è ciò che constatiamo in questi tempi. È inequivocabile, lo vediamo ogni giorno, ogni ora.

Secondo lei perché pochissimi autori, nei vari ambiti artistici, si occupano poco della propria cultura e delle proprie radici?

Dipende, non è così vero, ma è il Paese che non se ne occupa. Facciamo un esempio. Oggi c’erano degli inviati che venivano da noi. Se non avessimo costruito una relazione con la nostra storia di ieri e con tutte le ricadute culturali che questo ha avuto, anche nella produzione di cultura tradizionale, popolare, se questo diventasse dominio comune, noi ci renderemmo conto che siamo esattamente come quei poveracci a cui prendono le impronte digitali per emarginarli.

E questo è scomodo: meglio spingere, togliere gli elementi di pregio, un tassello qui, un tassello là, per poi eliminare il cammino che può essere compiuto, all’interno di una trasmissione televisiva, per arrivare poi magari ad un’altra visione delle cose. Ovviamente l’irrompere di questa ricchezza è pericoloso per il potere. Il potere ha bisogno di “sissignore”, non della gente che pensa.

Lei cosa pensa del lavoro che sta facendo, sia come traduttore che come autore, Erri De Luca?

Secondo me lui ha svolto un ruolo importante. Essendo un grande talento di narratore, lui ha colpito, i suoi libri hanno raggiunto numeri importanti. La sua comprensione sia della lingua yiddish che della lingua ebraica, per esempio, gli ha permesso di raccontare in un ebraico molto più ricco e pregnante e, essendo conosciuto, di svolgere in questa chiave un lavoro molto importante.

Perché ha capito alcune cose fondamentali: ha capito che un popolo è rappresentato dalla sua lingua, ha capito le differenze fra l’ebraismo diasporico e l’ebraismo ortodosso, ma anche le grandi differenze fra l’establishment religioso e invece la verità profonda, che non è mai quella dei chierici.

E in questo senso ha svolto un lavoro molto prezioso, al di là del valore suo intrinseco di scrittore e di pensatore.

Per concludere le volevo proporre un pensiero di Yashar Kemal, lo scrittore turco più volte candidato al premio Nobel. “Se la gente di un paese vuole vivere bene e felice prima deve rispettare e fare propri i valori universali, e garantire la libertà di pensiero senza confini. […] La ricchezza culturale del nostro Paese è nelle nostre mani”.

È un pensiero molto giusto questo, siamo noi i responsabili, è fuori da ogni discussione: dipende dalle scelte, dal coraggio, dalla determinazione a cui stiamo con la nostra cultura. Qual è l’orientamento del Paese? Condivido, assolutamente.

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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